di Benny Safdie e Josh Safdie (Stati Uniti, 2017)
Una lunga standing ovation subito dopo la proiezione a Cannes 2017, applausi convinti (ma nessun premio ricevuto) a cui non possiamo che unirci anche noi: “Good Time” è un thriller metropolitano che non concede tregua per cento maledetti minuti, un film che consacra il talento di questa coppia di registi finalmente pronti per il grande salto nel cinema che conta (il precedente “Heaven Knows What” del 2014, seppur intrigante, presentava un taglio documentaristico ancora acerbo dal punto di vista narrativo).
Connie e Nick sono due fratelli: il primo, interpretato da Robert Pattinson (affermatosi con “Twilight” ma poi anche con pellicole come “The Rover” e “Maps To The Stars”), è un belloccio piuttosto scaltro e paraculo, il secondo invece (Benny Safdie lo troviamo anche nelle vesti di attore) soffre di un ritardo mentale ed è in cura da uno psichiatra. Connie però coinvolge Nick in una rapina, l’inizio di un calvario senza fine per i due giovani, uno costretto a scappare per tutta la notte e l’altro rinchiuso in carcere senza che nessuno possa tirarlo fuori da lì pagando la cauzione.
“Good Time” è uno di quei film che si svolgono nell’arco di una giornata intera, una storia palpitante che prende per il collo ogni personaggio così come lo spettatore, costretto a trattenere il fiato in attesa di sviluppi. Le assurde vicissitudini di Connie non fanno altro che accrescere la tensione: Benny e Joshua Safdie non solo incollano la telecamera in faccia al protagonista, ma limitano al necessario gli squarci urbani di una New York che mostra i suoi riflessi notturni nelle luci rossastre che si manifestano di continuo sullo schermo, un bagliore psichedelico che risuona minaccioso insieme alle liquide trame elettroniche della colonna sonora.
“Good Time” è un’opera imprevedibile ricca di twist e di ulteriori figure umane del sottobosco malavitoso cittadino, nuovi elementi chiave che spostano in maniera avvincente la narrazione senza però farla deragliare dai binari sui quali ruota la vicenda principale. Perché c’è una linea invisibile che lega questi volti stanchi e tumefatti che incontriamo durante la notte, uomini (ma anche donne) che si incrociano e consapevolmente si muovono tutti nella stessa direzione: ottenere qualcosa o scappare da qualcosa, ma soprattutto sopravvivere in questa infima giungla metropolitana.
Con un titolo più che beffardo (nelle battute conclusive ascoltiamo un consolatorio “you’re gonna have a good time”), quello dei due registi è cinema adrenalinico che non rinuncia mai al dramma personale dei vari personaggi, segnati da una città che osserviamo in tutta la sua grandezza solo nell’arioso e ingannevole incipit. “Good Time” è infatti una trappola, una ragnatela urbana che guarda anche a Martin Scorsese e Walter Hill ma con un gusto per le inquadrature che si lega indissolubilmente con il lato umano dei protagonisti, qui da intendere come massima espressione di un disagio esistenziale che lascia trasparire persino malinconia e compassione. Incassi eccellenti in America (oltre due milioni di dollari), mentre in Italia cresce l’attesa per l’imminente uscita home video. Imperdibile.
(Paolo Chemnitz)