di Marco Ferreri (Italia, 1969)
L’alienazione, per come la intendiamo oggi, spesso è riferita ai nostri comportamenti all’interno di una società ipertecnologica dominata da internet e dai social network. Ma questo senso di estraneità è sempre esistito, in qualsiasi epoca e a qualsiasi livello, un isolazionismo in molti casi inconsapevole che il cinema italiano ci ha raccontato con classe e assoluta maestria. Pensiamo ad alcune opere di Michelangelo Antonioni come “L’Eclisse” (1962) o “Deserto Rosso” (1964), incastonate in un decennio di benessere economico che allo stesso tempo era minato da una crisi strisciante legata al crescente materialismo dell’individuo.
Solo un regista fuori dagli schemi come Marco Ferreri poteva dare voce a questa tematica in maniera così originale: “Dillinger è Morto” è infatti il punto di non ritorno dell’italiano medio, qui incarnato da un industrial designer di nome Glauco (un bravissimo Michel Piccoli), un uomo ripreso durante la sua giornata tipo. Una volta finito il lavoro, egli fa ritorno a casa, girovagando senza un vero obiettivo tra quell’arredamento asettico nel quale ogni oggetto sembra non avere nessuna importanza. Glauco prepara la cena, accende la televisione e trova in cucina una vecchia pistola impacchettata dentro un quotidiano d’epoca (sul quale è riportata la notizia della morte del famoso gangster John Dillinger, da qui il titolo del film). Tutto quello che osserviamo dopo non è altro che l’agire quotidiano di un borghese annoiato dalla vita: la proiezione dei filmini delle vacanze, il flirt con la domestica Sabina e poi infine il tentativo di fuga da questa gabbia esistenziale, che si conclude in modo surreale e inaspettato.
Che il 1968 sia stato un periodo di contestazione poco importa, Marco Ferreri è disilluso e il suo cinema trasuda cinismo e pessimismo da tutti i pori. Ogni scappatoia cercata dal protagonista si rivela infelice o ridicola (ad esempio far finta di entrare nello schermo per immedesimarsi con le immagini delle vacanze!), così come non sembra esserci conforto nel rapporto con la moglie Anita, ormai al capolinea. La casa dove si svolgono gli eventi era quella del pittore Mario Schifano (alcune sue opere sono appese alle pareti), mentre la cucina era quella della villa di Ugo Tognazzi, entrambi amici del regista, stanze fredde attraversate solo dalla musica della radio e dai costanti riferimenti artistici del periodo (la stessa pistola verniciata a pois rimanda alla pop art). Ma se nella casa persiste un senso di vuoto, non si sta meglio fuori: nelle poche sequenze girate in esterni, colpiscono lo sguardo le maschere antigas (come nell’incipit) e le strade utilizzate solo come un tunnel di passaggio tra l’ambiente di lavoro e la casa, senza possibilità di interazioni.
“Dillinger è Morto” è un film minimale sulla non-comunicazione, un cinema sperimentale che lascia parlare i silenzi, i movimenti e il nulla di un individuo frustrato da una vita insoddisfacente. Il reale che soffoca nell’astratto, con un tocco di ironia tagliente al confine del grottesco, il marchio di fabbrica di un Marco Ferreri qui al suo apice assoluto, nonostante le solite polemiche della critica all’uscita della pellicola. Novanta minuti di totale e sublime annullamento: quando la trasgressione e l’apatia si divorano a vicenda.
(Paolo Chemnitz)
Interessantissima la presenza di Mario Schifano in questo film! Voglio proprio recuperarlo!
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