di David Cronenberg (Canada/UK, 1996)
“Serbo nell’intimo la convinzione che le due cose più filmate nella storia del cinema siano il sesso e le automobili”, queste le parole di David Cronenberg durante il Festival di Cannes del 1996, edizione in cui “Crash” si aggiudicò il Premio della Giuria. Se ai due termini succitati aggiungiamo la morte, si crea un triangolo morboso che racchiude alla perfezione gli intenti della pellicola. All’interno di questa geometria, si muove una coltre gelida incarnata da un linguaggio estetico mai così freddo e distaccato nelle opere del regista canadese.
“Crash” è un prodotto meno appariscente ma non per questo da intendere come un lungometraggio minore nella sconfinata filmografia di Cronenberg. A livello concettuale assistiamo infatti all’esplosione definitiva di alcune sue tematiche basilari già toccate in passato, come appunto l’erotismo e la contaminazione (qui drastica e immediata) tra l’uomo e la macchina. L’automobile come prolungamento della virilità, l’incidente come momento ultimo prima della dipartita, una petite mort esattamente come l’orgasmo. L’urto, il contatto, ecco la nuova pornografia, una violenza improvvisa, un impatto letale che lascia segni indelebili sul corpo (lividi, ferite ed ematomi, ma anche protesi ortopediche che restano per sempre).
Sicuramente si tratta di un lavoro più lineare e in parte ripetitivo, ma Cronenberg congela la narrazione nel cuore delle atmosfere irreali della periferia di Toronto, prendendo spunto dall’omonimo romanzo di James Graham Ballard del 1973 (Ballard è anche il nome di uno dei protagonisti delle vicende). In “Crash” sono proprio le strade extraurbane e le tangenziali a muovere il destino dei personaggi, colate di asfalto che dipingono un mood cupo e straniante incastonato nella fotografia più algida (dalle tonalità bluastre). Il film è meccanico e volutamente monocorde (come nella recitazione degli attori) ma si accende di proposito tra le lamiere contorte, perché la collisione è il mezzo, l’unico possibile per interagire e sentirsi appagati: un percorso malsano e ossessivo che nel 1996 scatenò la censura, allarmata dai risvolti drammatici di un sesso 2.0 intriso di avanguardia, pessimismo e inquietudine.
Memorabile la ricostruzione dell’incidente accaduto a James Dean, uno dei momenti più alti di un’opera comunque difficile e ovviamente non per tutti i palati. Perché quella di “Crash” è pura filosofia che si spinge ben oltre il suo decennio di appartenenza, aprendo un sentiero che col passare degli anni si è rivelato profetico. La nuova carne concepita in “Videodrome” (1983) qui si vivifica nell’acciaio brutalmente accartocciato su se stesso, una pulsione erotica che scatena quelle scintille emozionali che oggi gli individui sembrano trovare soltanto nella tecnologia. Un orrore disumano quanto complesso da codificare.
(Paolo Chemnitz)