Destruction Babies

destruction babiesdi Tetsuya Mariko (Giappone, 2016)

“Disutorakushon Beibîzu” è il titolo originale di questo “Destruction Babies”, un film giapponese che per molti ancora è un oggetto sconosciuto. Si tratta di una pellicola dai contenuti forti, grezzi e diretti, una spietata analisi sul vuoto generazionale che attanaglia i teenager nipponici, non a caso ambientata nella città portuale di Matsuyama, lontano dai riflettori della grande metropoli.
Taira Ashihara e Shota Ashihara sono due fratelli senza più i genitori: il primo è il classico attaccabrighe, il secondo ha un carattere mansueto e frequenta ancora la scuola. In seguito all’ennesima rissa, Taira sparisce e inizia a vivere praticamente come un vagabondo, scatenando di continuo zuffe e pestaggi contro alcuni coetanei che incontra per strada, senza neppure un motivo apparente. La prima parte di “Destruction Babies” è fatta solo di botte: pugni, calci, spintoni, volti tumefatti e nasi spaccati (le coreografie semplici e realistiche evitano inutili voli pindarici), un viaggio allucinato tra una gioventù alla deriva che non sembra mostrare interesse in qualcosa se non per l’autodistruzione, magari scattando nel frattempo una foto con lo smartphone per immortalare il momento.
Quelli di Tetsuya Mariko sono ragazzini senza prospettive: qui non siamo davanti a futuri membri della Yakuza (ad esempio le gang giovanili di “Hard Romanticker”), poiché Taira incarna solo il disastro quotidiano di chi è destinato esclusivamente al fallimento nella vita. Il film nella seconda parte diventa più cupo e pessimista e affianca al protagonista due personaggi piuttosto significativi, Yuya (un bullo codardo di città fortemente impressionato dalle gesta di Taira) e la bella cleptomane Nana (Nana Komatsu, già ammirata nel folle “The World Of Kanako”), coinvolta dal duo in una lenta discesa nel baratro della notte.
“Destruction Babies” è un film strano, diverso, violentemente gratuito ma non per questo senza una sua dignità concettuale. Il regista utilizza proprio i pestaggi per sfogare una rabbia repressa radicata nel profondo dell’animo, non a caso si affida a uno score musicale dissonante che in alcuni frangenti sottolinea l’instabilità esistenziale del giovane Taira (“Loser! Scum! The only thing you deserve is hell!”, non c’è proprio altro davanti a lui). Il Giappone di Tetsuya Mariko è quindi descritto come un paese abbandonato dalle istituzioni (famiglia, scuola, forze dell’ordine), nel quale l’ultimo briciolo di sensibilità risiede nel piccolo Shota che si mette alla disperata ricerca del fratello fuggiasco. Una provocazione che va a buon fine e che sancisce la riuscita di una pellicola decisamente da scoprire, condensata in oltre cento minuti che non richiedono un grande sforzo interpretativo ma solo una sottile comprensione di taglio socio-pedagogico. Perché dietro le botte c’è solo la tristezza di un’adolescenza negata.

4

(Paolo Chemnitz)

destruction bab

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