di Kevin Smith (Stati Uniti, 2014)
Prima ancora dell’uscita home video italiana, “Tusk” ha conosciuto la passerella del Festival del Cinema di Roma nel 2014, una proiezione che ci lasciò soddisfatti (ma non entusiasti). Oggi il film di Kevin Smith ha acquisito sia ulteriori fan che nuovi detrattori, alla luce di un discorso più ampio che include il trascurabile spin-off “Yoga Hosers” (2016) e il già annunciato “Moose Jaws” (2018), ultimo capitolo della True North Trilogy.
Wallace (Justin Long) conduce con il suo amico Teddy un programma radiofonico che riscuote molto successo: il suo scopo è quello di intervistare strani personaggi con delle storie particolari e bizzarre da raccontare. Un giorno decide di volare da solo in Canada per incontrare un ragazzo con una gamba amputata detto Kill Bill Kid, ma una volta giunto sul posto scopre con disappunto che egli è morto. Nonostante lo sconforto, invece di rientrare in America il protagonista trova per puro caso un indirizzo in un bagno pubblico e qui si reca. Corrisponde a quello di un vecchio marinaio che vive in un luogo isolato (Howard Howe, interpretato da un superbo Michael Parks), un uomo che in realtà è un mad doctor capace di realizzare mostruose operazioni chirurgiche. Wallace viene trasformato in un tricheco (da qui il titolo “Tusk”, ovvero zanna), ma un eccentrico detective si mette sulle sue tracce.
Il film decolla in pieno stile comedy, con il giovane e dinamico podcaster (un tipo comunque arrogante e sopra le righe) che viene subito visto con un certo disprezzo dai canadesi, solitamente più sobri e distaccati. Successivamente, l’opera di Smith scivola nell’horror e nel grottesco, delineando le vicende legate alla tremenda mutazione di Wallace, quasi un parente stretto delle povere cavie viste in “The Human Centipede” (2009). In questo caso però il tricheco dalle sembianze umane comunica persino una certa tristezza mista a compassione, anche se il regista evita di scivolare nel cinema più raccapricciante e sinistro, grazie a una giusta dose di ironia. Purtroppo l’epilogo non convince e alcuni passaggi finiscono per appesantire un prodotto che a volte si perde in numerosi e dispersivi flashback. Kevin Smith per fortuna non è l’ultimo arrivato ed evita (con un po’ di mestiere) che il film diventi una farsa senza capo né coda, al di là dell’iconografia vincente dell’uomo tricheco, il vero punto di forza di tutta la pellicola.
Una cosa è certa, l’atmosfera generale riesce a garantire discrete sensazioni allo spettatore, un mood costruito attraverso quel bizzarro miscuglio che si agita tra humour nero e cinema weird, un sodalizio che include repentini cambi di registro e citazioni sia favolistiche che letterarie (Hemingway). Così, anche dopo una seconda visione, il giudizio tendenzialmente positivo resta invariato: è chiaro però che prendere sul serio un prodotto del genere equivale a distruggerlo in maniera inequivocabile (“I don’t wanna die in Canada!” deve generare un sorriso, non terrore), quindi ancora una volta ci sentiamo di consigliare questa pellicola solo ai veri aficionados del regista americano e della stravaganza fatta cinema. Il rischio altrimenti è quello di avvertire una non tanto sottile presa in giro.
(Paolo Chemnitz)