di Eloy De La Iglesia (Spagna, 1972)
Eloy De La Iglesia è stato un personaggio scomodo per la Spagna franchista: comunista, omosessuale dichiarato e capace di lanciare più di una critica attraverso le sue opere, ovviamente censurate per le loro tematiche scabrose e provocatorie. Tra i suoi film più celebri annoveriamo “L’Appartamento Del 13° Piano”, il successivo “Una Gota De Sangre Para Morir Amando” (legato a doppio filo con “Arancia Meccanica” e da noi arrivato con l’infausto titolo “I Vizi Morbosi Di Una Giovane Infermiera”), ma anche il devastante “El Pico” aka “Overdose” (1983), sicuramente il suo miglior lavoro.
“L’Appartamento Del 13° Piano” (“La Semana Del Asesino”, conosciuto pure con la fuorviante denominazione “The Cannibal Man”) è una pellicola in apparenza incentrata sugli omicidi di un uomo solitario: in realtà, il film nasconde un discorso molto più ampio, una riflessione sui cambiamenti sociali in atto durante quel periodo (nuovi grattacieli alla periferia di Madrid si affiancano alle baracche) e una disamina sui rapporti interpersonali anche tra individui appartenenti a ceti differenti.
Marco vive in mezzo al sangue, lavora in un mattatoio. Un giorno uccide per sbaglio un uomo, ma non denuncia l’accaduto (come vorrebbe la sua fidanzata). Così ammazza pure lei, dando inizio a una catena di brutali omicidi nella sua abitazione e occultando i vari corpi in una stanza: presto le esalazioni dei cadaveri in decomposizione invadono la sua casa, ma il protagonista non si ferma neppure quando comincia a frequentare un giovane e ricco omosessuale che vive al tredicesimo piano di un grattacielo costruito lì accanto, un amico che in maniera implicita cerca di fargli capire qualcosa.
Eloy De La Iglesia cita Hitchcock (“La Finestra Sul Cortile”) ma rifiuta gli stereotipi: il lato umano e drammatico della storia prevarica quello di marca exploitation, con l’accento posto sui personaggi e sulle contraddizioni di un paese ormai lanciato verso la modernità (eloquente la passeggiata tra le luci al neon del centro cittadino, con il volto di Marco completamente spaesato). Un contrasto che emerge tra quei palazzoni che svettano nel nulla di un paesaggio brullo, spoglio, da cinema western. Il regista gestisce con sapienza una tensione erotica latente ma mai sontuosa, legata comunque all’insoddisfazione dell’individuo alla continua ricerca della felicità. Le ingenuità non mancano (alcuni dialoghi, la sceneggiatura non impeccabile, l’utilizzo della musica) ma il film lascia addosso una sensazione di malessere non indifferente, soprattutto nella cupa e dolorosa immagine conclusiva. Significativo.
(Paolo Chemnitz)