di Robin Hardy (Gran Bretagna, 1973)
Unico, originale, inimitabile e irraggiungibile, questo è “The Wicker Man” (nonostante quello scempio di remake con Nicolas Cage realizzato nel 2006). Un film che non segue la scia degli horror di matrice satanico-occultistica tanto in voga tra i 60s e i 70s, avvicinandosi più a un discorso legato al mystery movie e al thriller. Ma l’opera di Robin Hardy si pone soprattutto come manifesto di un cinema pagano che il regista utilizza per criticare la mentalità bigotta e corrotta del cristianesimo. Una chiara accusa alla società occidentale, di base etnocentrica, capace di giudicare le altre culture basandosi esclusivamente su una visione critica unilaterale.
Il sergente Neil Howie riceve una lettera anonima che richiede la sua presenza a Summerisle, una remota isola appartenente al gruppo delle Ebridi (Scozia). La lettera denuncia la scomparsa di una bambina di nome Rowan Morrison, ormai introvabile da mesi: l’uomo incontra grandi difficoltà nell’ottenere informazioni dagli abitanti del luogo (nessuno sembra conoscere questa ragazzina), ma la sua ricerca è turbata più che altro dai comportamenti bislacchi degli autoctoni. Le coppie hanno rapporti sessuali all’aperto, ai bambini viene insegnato il simbolismo fallico e per curare il mal di gola i locali si infilano in bocca le rane, una serie di atteggiamenti intollerabili per un devoto credente come Howie. Il capo di questa comunità è Lord Summerisle, il quale paradossalmente offre al protagonista una via di salvezza speciale (“credendo in ciò che credi, ti conferiamo un dono raro in questa epoca, una morte da martire”). Perché la natura non concede i suoi frutti senza un adeguato sacrificio in cambio, soprattutto quando il raccolto è stato disastroso.
Lo sceneggiatore Anthony Shaffer prese ispirazione da un romanzo (“Ritual”) di David Pinner, mentre per l’immagine dell’uomo di vimini fu citato un passaggio dei Commentarii De Bello Gallico, dove Giulio Cesare descriveva come i galli giustiziavano i criminali (ovvero bruciandoli vivi dentro enormi statue fatte di rami intrecciati). Le fonti di “The Wicker Man” non si esauriscono qui, perché nulla è lasciato al caso, neppure le musiche (onnipresenti) e la credibilità dei vari elementi folkloristici, quasi un trattato etnoantropologico che pesca a piene mani anche dal celebre libro “Il Ramo D’Oro” di James Frazer.
Quello di “The Wicker Man” è un fascino genuino e ancestrale, riconducibile al rapporto più puro tra esseri umani e natura sovrana, una sottomissione alle leggi dell’universo mai accettata dalla civiltà del progresso. Un film sinistro, angosciante, inquietante (la bellezza delle maschere pagane) e crudele allo stesso tempo, interpretato da un grande Christopher Lee (Lord Summerisle) e da un meno convincente Edward Woodward (Howie). Il vero senso di spaesamento è quindi riconducibile alle atmosfere weird e primordiali che impregnano ogni singolo fotogramma del film, immagini (per noi) alienanti di un mondo così diverso e lontano, condannato come orrore blasfemo da secoli di persecuzioni. Il sergente Howie (non a caso un rappresentante delle istituzioni) è la vittima prescelta, ma le sue parole di astio verso le pratiche pagane sono l’atto di accusa che l’uomo contemporaneo rivolge a ciò che non è percepito come culturalmente ammissibile. Quell’anatema che poi torna indietro come un boomerang.
(Paolo Chemnitz)