In A Glass Cage

in a glassdi Agustí Villaronga (Spagna, 1986)

L’orrore, come il peccato, può diventare affascinante”. In “Tras El Cristal” (questo il titolo originale) c’è un transfer continuo tra questi due termini, così come tra vittima e carnefice. Un passaggio di consegne allarmante, poiché qui il desiderio di vendetta è suggerito nella maniera più glaciale possibile: è un flusso mortale che oscilla con matematica freddezza tra i protagonisti del film.
Il debutto per Agustí Villaronga (regista classe 1953 nato nelle isole Baleari) non poteva essere più controverso, perché l’eredità di un dramma storico sconvolgente viene messa sulle spalle di un solo personaggio, Klaus, un vecchio nazista con la passione per i bambini. Un signore che ama torturare giovani innocenti solo per il gusto della perversione, come assaporiamo dalle prime immagini della pellicola. Quando l’uomo decide di togliersi la vita, quello che poteva essere un atto liberatorio si trasforma nella sua condanna: egli sopravvive ma rimane rinchiuso in un polmone d’acciaio, la sua unica possibilità di respirare.
Con questo espediente, Villaronga lascia spazio alla claustrofobia nella claustrofobia, considerando che la casa di Klaus è un ambiente che opprime già per gli individui che la abitano, immersi all’interno di una fotografia virata sul blu, gelida come un ultimo respiro esalato. In questo panorama desolante compare la figura di Angelo, un finto infermiere che riesce a far breccia tra quelle mura prendendo il comando delle operazioni: il ragazzo era stato torturato da Klaus ma non aveva mai perso le sue tracce, proprio perché prima o poi sarebbe arrivato il momento della rivalsa.
Con l’entrata in gioco di Angelo il film diventa sempre più torbido e malato, anche se in alcuni frangenti Villaronga tende a esasperare le vicende (la lettura del diario si spinge oltre l’autocompiacimento morboso). Ma “In A Glass Cage” vive di terrore psicologico, di identificazione tra boia e preda, di un sadismo che si muove tra i due personaggi come in un (cupo ma elegante) circolo vizioso, facendo parlare le azioni, le privazioni, il rimpianto e i tragici ricordi. Un affresco spietato che lascia profondamente turbati, sia nelle scene che vedono protagonista il vegetale Klaus (incredibile il senso di oppressione quando il macchinario smette di funzionare anche per pochi istanti), sia nella crudeltà che si (ri)modella nel suo aguzzino. Il male che travalica ogni ideologia, ogni appartenenza.
Nonostante un finale meno ispirato rispetto alle premesse (intrigante quanto enigmatico), “In A Glass Cage” si rivela un lavoro di grande efficacia, una vera prigione di vetro in cui lo spettatore, messo all’angolo in silenzio, diventa testimone oculare di un orrore spettrale. Una lenta agonia nella quale l’allievo imita il maestro, forse superandolo. Con questo film Agustí Villaronga si muove tra la pesante eredità del franchismo (terminato in Spagna solo pochi anni prima) e uno stile austero e molto personale che tocca argomenti scabrosi come la pedofilia. Gli spunti che offre “In A Glass Cage” sono davvero tanti, oscure memorie di un passato doloroso.

4,5

(Paolo Chemnitz)

in a glass cage

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