Ichi The Killer

ichi the-killer-posterdi Takashi Miike (Giappone, 2001)

Verso la fine degli anni novanta Hideo Yamamoto pubblica un manga arrivato poi con molto ritardo qui in Italia (la prima edizione risale al 2013). Si tratta proprio di “Ichi The Killer”, una storia completamente fuori di testa che Takashi Miike trasforma in pellicola nel giro di poco tempo, un film ancora oggi tra i più amati e celebrati dai fan del regista: tutto questo nell’anno di grazia 2001, quando Miike realizza anche “Visitor Q”, ennesimo monumento del cinema estremo giapponese.
Lo stile fumettistico qui rimane ben ancorato alla fonte originale, ma tutto quello che viene costruito attorno è molto di più, perché Miike non esita ad alzare l’asticella dell’ultraviolenza in ogni situazione già critica di base. Studia bene i personaggi e le loro perversioni e cura alla perfezione le scenografie e il montaggio, non a caso “Ichi The Killer” è un film sovraccarico in ogni inquadratura, denso di colori e di movimenti, un collage di sensazioni sopra le righe che costituiscono il rovescio della medaglia di un qualsiasi sobrio yakuza movie del decennio precedente (un genere in passato più volte approcciato da Miike ma con altri propositi. L’omaggio a Takeshi Kitano però lo ritroviamo anche qui, con la scena dello stupro che cita volutamente la medesima sequenza vista in “Sonatine”).
La sceneggiatura è molto ingarbugliata e a volte veniamo risucchiati nel caos degli eventi, ma da questo turbine inarrestabile di immagini emergono due protagonisti assoluti: Ichi lo conosciamo fin dall’incipit, è un giovane in apparenza innocuo ma decisamente pericoloso. Soffre di disturbi mentali, è un voyeur, però sa essere anche un sadico killer che ammazza senza fare sconti per nessuno. Ma il vero mattatore del film, almeno a livello iconografico, è Kakihara, il capo di una gang che si mette a caccia del proprio boss misteriosamente scomparso con un bottino di trecento milioni di yen (che in realtà hanno fatto un’altra fine). Kakihara ha il volto sfregiato, è sadomasochista ed è proprio attraverso la sua ambiguità che Takashi Miike riesce a farci riflettere sulla vera essenza del film. Dopotutto lo stesso regista non ha mai nascosto il concetto di sentimento insito nella violenza, una fusione compatibile che oscilla tra il senso di colpa e la tendenza psicopatica a concentrarsi esclusivamente sul gesto dell’infliggere dolore: “when you’re giving pain to someone, don’t think about the pain that person is feeling. Just concentrate on how good it feels to be causing someone pain. That’s the best thing you can do for a true masochist” sono le parole di Kakihara. Egli colpisce e distrugge per poi cedere all’autolesionismo, come nella scena cult del rivale appeso ai ganci (e torturato con l’olio bollente). Un uomo che poi si rivela innocente e alla cui gang Kakihara dona un pezzo della propria lingua, una (auto)punizione per lui consequenziale a un errore dovuto a una soffiata sbagliata.
Quando i due protagonisti del film si incontrano, “Ichi The Killer” ha già dato il suo enorme contributo di splatter e frattaglie varie (talmente eccessivo e gratuito da risultare inoffensivo), ma ciò che resta scolpito dopo le due ore di visione è un ricordo legato al dolore dei personaggi, un malessere dell’animo che segna tragicamente la loro esistenza. Ancora una volta Takashi Miike riesce a dare il meglio di sé lavorando in piena autonomia, il suo spirito anarchico spesso causa scompensi narrativi che vengono però ripagati dalla potenza di un cinema libero, eccessivo e senza freni di alcun tipo. Il Giappone ha sempre bisogno delle sue invenzioni, oggi più che mai.

4

(Paolo Chemnitz)

Ichi thekiller

 

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...