di William Friedkin (Stati Uniti, 1980)
Giugno 1981: alcuni casi sospetti di polmonite riscontrati in cinque omosessuali permisero ai medici di riconoscere per la prima volta l’AIDS. Comincia un incubo, inizialmente circoscritto alle comunità gay, agli haitiani, agli eroinomani e agli emofiliaci. La stampa coniò il termine GRID (gay-related immune deficiency), ma solo l’anno successivo fu utilizzato il termine AIDS, una malattia da cui nessuno era immune.
Torniamo indietro al 1980: William Friedkin realizza “Cruising”, il suo film maledetto, poiché alla sua uscita scatenò infinite polemiche per il tema trattato, imperniato attorno al mondo gay e sadomaso. Ma quella del regista di Chicago era una premonizione, il germoglio del male e delle paure incombenti incarnato da una storia torbida ambientata nelle cupe notti newyorkesi.
Nel fiume Hudson viene rinvenuto un braccio mozzato, a cui seguono altri ritrovamenti umani che conducono direttamente alla pista del serial killer. La polizia concentra le indagini nei club omosessuali della città, dove si svolgono festini senza alcun freno inibitorio in un’atmosfera di trasgressione e promiscuità. Al Pacino (qui nei panni di Steve Burns) è l’infiltrato che cerca di sbrogliare la matassa, in un ruolo controverso e assolutamente intrigante che ci consegna una performance da applausi.
La prima parte della pellicola è veramente lercia: in questi locali notturni accade proprio di tutto e l’iconografia gay del periodo (immancabile il chiodo di pelle e il cappello abbinato) è mostrata in maniera alquanto naturale, come del resto le pratiche estreme s/m (che culminano con un fistfucking ovviamente segato nella versione italiana). Solo nella mezzora conclusiva le ipotesi seguite dal protagonista giungono a una soluzione, pur con qualche incertezza nella sceneggiatura (il lato investigativo perde una parte di credibilità, senza comunque intaccare una storia volutamente scarna di contenuti). Il finale a sorpresa poi ribalta i giochi e lascia aperte varie interpretazioni allo spettatore.
Chissà cosa aveva girato William Friedkin in quei quaranta ulteriori minuti di pellicola poi tagliati e andati perduti. Sta di fatto che l’edizione nostrana del film è priva di alcune scene scabrose, mentre molti dialoghi sono stati distorti o addirittura censurati (sinceramente è un peccato perdersi il linguaggio scurrile e politicamente scorretto di questo sottobosco newyorkese). Impossibile però modificare quel crudo e spartano realismo che rappresenta il vero punto di forza di “Cruising”, un’opera rivalutata col passare del tempo anche dalla comunità gay, inizialmente indignata per il presunto contenuto omofobo del lavoro (l’attivista e critico cinematografico americano Vito Russo giustificò le proteste con il fatto che nel film Al Pacino, una volta attratto dal mondo omosessuale, diventa uno psicotico con propensione alla violenza e all’omicidio). In effetti Friedkin non descrive con grande simpatia questi personaggi, ma la connessione tra loro e la violenza è da intendere come l’ennesimo riflesso di una società statunitense nel pieno della criminalità (sono anni di buio quelli a cavallo tra i 70s e gli 80s, da considerare tra i più pericolosi in assoluto per gli Stati Uniti). Nulla di personale quindi, ma solo un affondo coraggioso e oltraggioso su un ambiente underground all’epoca ghettizzato e visto con estrema diffidenza dalla benpensante borghesia. “Cruising” è quindi un’opera in controtendenza, soprattutto se letta con lo sguardo che si apre a ventaglio sul malessere esistenziale di un nuovo decennio alle porte. Una discesa negli inferi della carne e dell’anima per un thriller metropolitano asfissiante come pochi.
(Paolo Chemnitz)
Un Pacino inconsueto ma convincente, oltre ad un ottimo film
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