Lolita Vibrator Torture

lolitadi Hisayasu Satô (Giappone, 1987)

Hisayasu Satô ha girato una quantità immane di film, restando sempre ancorato con passione e coerenza al circuito underground giapponese. Il regista, con budget limitati a disposizione, non ha mai virato su tematiche diverse da quelle a lui care, come ad esempio l’alienazione nelle metropoli nipponiche, il sesso (inteso come un atto meccanico e ripetitivo utile per colmare il proprio vuoto esistenziale), l’emarginazione sociale o il feticismo. Un nichilismo a cavallo tra realtà e mondo virtuale raccontato in moltissimi lavori, tra i quali ricordiamo i più celebri: “The Bedroom” del 1992 (opera che fece discutere per la presenza nel cast del vero criminale Issei Sagawa, il quale anni prima aveva ucciso, mutilato e mangiato una ragazza a Parigi!) e poi ancora “Naked Blood” (1996), il suo lungometraggio più acclamato.
“Lolita Vibrator Torture” è un titolo poco conosciuto, un pinku eiga dove siamo immersi nelle inconfondibili atmosfere stranianti tipiche del regista: anche in questa circostanza il protagonista è un pervertito con turbe mentali che in gran segreto compie qualcosa di indicibile. In questo caso si tratta di un fotografo, un individuo repellente e negativo con una disfunzione che impedisce la sua normale attività sessuale, il quale rapisce una serie di giovani ragazze che una volta rinchiuse all’interno di un container, vengono sverginate con un vibratore per poi essere disciolte nell’acido. Atti di erotismo che non vogliono provocare nessun compiacimento pruriginoso, ma solo testimoniare lo squallore in cui si muove il personaggio al centro delle vicende. I nostri occhi restano impietriti, a volte disgustati, dopotutto il cinema terminale di Hisayasu Satô non conosce speranza e pietà per nessuno, come nel colpo di scena conclusivo, un ennesimo inno all’esistenzialismo e all’individualismo più sfrenato (la spunta chi si dimostra più perverso ma soprattutto chi è capace di nascondere e congelare ogni tipo di sentimento). “Lolita Vibrator Torture” è un prodotto da prendere o lasciare, sessanta minuti in cui lo script non riesce ad andare oltre una ripetizione continua di situazioni cicliche che alla lunga possono irritare lo spettatore meno preparato. Però il malessere mostrato in questa pellicola è palpabile, Satô (più di molti altri suoi colleghi) è capace di sbatterci in faccia quel vuoto incurabile che affligge la quotidianità delle persone invisibili, uomini e donne che la società neppure considera. Un cinema malato che, nonostante i limiti evidenti in fase di realizzazione, non lascia indifferenti.

2,5

(Paolo Chemnitz)

lolita v

 

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