di Michaël R. Roskam (Belgio/Olanda, 2011)
“In tutta la mia vita non ho conosciuto altro che animali. Mi sono sempre sentito come questi tori, senza mai sapere cosa significhi proteggere qualcuno”.
Alcuni grandi film non sarebbero tali senza un trascinatore all’interno di essi. In “Bullhead – La Vincente Ascesa Di Jacky” (siano maledetti i titoli italiani) il motore unico e assoluto della pellicola risponde al nome di Matthias Schoenaerts, interprete eccellente di una storia dolorosa, drammatica e alquanto originale. Questo lungometraggio belga riuscì persino ad arrivare nella cinquina dei candidati all’Oscar come miglior film straniero nel 2012, perdendo con il più quotato “Una Separazione” (2011) di Asghar Farhadi.
La storia si dipana in maniera parallela su due fronti: il primo, meno interessante, riguarda il traffico illecito di ormoni per animali tra gli allevatori delle Fiandre, mentre il rovescio della medaglia mostra il dramma esistenziale di Jacky, un uomo devastato da un trauma infantile irreversibile. Le due facce del plot lentamente si intrecciano e l’uomo diventa bestia, perché “Bullhead” è un’opera che contempla non solo un malessere psicologico, ma soprattutto una menomazione fisica che si impossessa del protagonista con un’intensità realmente credibile (Schoenaerts si immedesima in Jacky, ogni suo movimento è un meccanismo perfetto che colpisce come un pugno nello stomaco). Una volta che il regista ci mostra (tramite l’utilizzo di flashback) il tragico destino del nostro personaggio da bambino, il film prende una piega sempre più incentrata sulla sua storia personale, lasciando cadere (volutamente) in secondo piano tutto il resto, con qualche perdonabile spiegazione di troppo sui vari accadimenti.
Il connubio tra Michaël R. Roskam (qui al suo debutto) e l’attore di Anversa è andato avanti con discreto successo, prima nella produzione americana “The Drop” aka “Chi è Senza Colpa” (2014) e poi nel contemporaneo “Le Fidèle” (2017), una storia di gang criminali (con intreccio melodrammatico) ambientata a Bruxelles. Ma più che la città, è il Belgio rurale a ricoprire ancora una volta un ruolo fondamentale per questo tipo di cinema, nel quale la cornice uggiosa delle campagne fiamminghe si mescola con qualcosa di sinistro che ritroviamo tra le fattorie e nei volti dei personaggi (eccetto quello semplice e pulito di Lucia – elemento chiave del film – la quale però vive e lavora in un contesto urbano). Il segreto di “Bullhead” è anche questo, il saper coniugare la fisicità bovina del prorompente Jacky (testa di toro, appunto) con un paesaggio cupo che sembra presagire qualcosa di funesto. Senza dimenticare quella componente folkloristica costituita dalle lingue e dai dialetti incomprensibili parlati in quella zona (in questo caso il neerlandese), capaci di apportare maggior fascino e mistero alle vicende.
“Rundskop” (questo il titolo originale) è un lavoro sia commovente che in parte disturbante, capace di toccare delle corde emozionali non facili da smuovere. Quelle relative alla fragilità umana e al dolore di una virilità negata.
(Paolo Chemnitz)