di Jung Byung-Gil (Corea del Sud, 2017)
Da oggi anche la Corea del Sud ha la sua Nikita. Correva infatti l’anno 1990 quando Luc Besson lanciò con grande successo questo personaggio femminile ribelle e controverso, una donna arrestata e condannata all’ergastolo dopo una sanguinosa rapina ma successivamente arruolata nei servizi segreti francesi con una nuova identità. Una killer spietata, proprio come Sook-Hee, unica e indiscussa protagonista di questo “The Villainess”, film già applaudito allo scorso Festival di Cannes (dove è stato presentato fuori concorso).
Ma da quel “Nikita” sono trascorsi ben ventisette anni: Jung Byung-Gil mantiene solo lo spunto, l’idea di fondo (praticamente identica), costruendo il suo lungometraggio e plasmando la sua eroina in maniera completamente diversa dal prototipo di Besson. Ce ne rendiamo conto fin dalle prime portentose immagini, una soggettiva videoludica che cita “Hardcore Henry” (2015) grazie a una serie di colpi proibiti in pieno stile action ultraviolento, tra vorticosi piani sequenza e una telecamera che a un certo punto cambia prospettiva mostrandoci Sook-Hee in tutta la sua possente fisicità. I minuti iniziali di “The Villainess” hanno le carte in regola per essere ricordati tra gli annali del cinema d’azione più estremo, si rasenta quasi la perfezione: situazioni che ciclicamente ritornano anche durante le successive due ore di visione, dopotutto fin da subito il regista lascia intendere che non sarà certo il plot a tenerci incollati allo schermo, ma tutto il resto (sangue, coltellate, inseguimenti, botte da orbi e tanta adrenalina, un menu ottimamente coreografato).
“The Villainess” è una pellicola tecnicamente ineccepibile che si rivolge anche a un pubblico più ampio, strizzando l’occhio qua e là al “Kill Bill” tarantiniano e a quel cinema che lascia da parte l’introspezione per fare spazio al puro intrattenimento, questa volta crudo, diretto e senza esclusione di colpi. Il cast funziona, Sook-Hee è interpretata dalla brava Kim Ok-Bin, ma non manca neppure qualche volto a noi celebre, come Shin Ha-Kyun (l’indimenticabile Ryu di “Mr. Vendetta”).
Il regista, utilizzando i flashback, riesce anche a far addormentare l’opera abbassandone ogni tanto il ritmo, una scelta che si rivela felice ed efficace per variare su un filo conduttore altrimenti troppo monotono (se ad esempio “Hardcore Henry” dopo un po’ iniziava a mostrare la corda, “The Villainess” rallenta ma poi riparte sempre con alcuni slanci improvvisi). Jung Byung-Gil non inventa assolutamente nulla di nuovo, ma si dimostra capace di assemblare con cura le tante sfaccettature del cinema action estremo visto negli ultimi due decenni: qui l’aspetto drammatico (o la stessa vendetta insita nella storia) è solo un pretesto per dar vita a una giostra di esagerazioni che non lasciano di certo indifferenti. Siamo al cospetto di uno dei titoli orientali più interessanti della stagione all’interno del genere di riferimento: se però cercate realismo e verosimiglianza, state alla larga da questo film a dir poco pirotecnico. “Io non voglio vivere. Io voglio uccidere”.
(Paolo Chemnitz)