di Ryûhei Kitamura (Giappone, 2000)
“Ci sono 666 portali che collegano questo mondo al regno dei morti. Lo loro esistenza è sconosciuta agli esseri umani. C’è un luogo in Giappone dove è celato il 444° portale, la foresta della resurrezione”. Inizia in pompa magna questo film diretto da un eccentrico Ryûhei Kitamura, il quale si reinventa novello Fulci (che almeno in “…E Tu Vivrai Nel Terrore! L’Aldilà” si era fermato a sette varchi per l’inferno). “Versus” però non ha nulla a che spartire con l’horror nostrano, poiché si rivela un fumettone splatter che mette insieme praticamente di tutto: action, chanbara, arti marziali, yakuza movie, morti viventi e tanto sangue, curato con effetti speciali più che discreti.
Due fuggiaschi evasi da un carcere di massima sorveglianza scappano nella foresta, in attesa dell’aiuto di alcuni complici. Ma la situazione presto degenera (un gangster si trasforma in zombi) e uno dei protagonisti (tutti rigorosamente senza nome) si ritrova da solo in mezzo al bosco, in compagnia di una misteriosa ragazza sequestrata dal branco poco prima. L’avventura dei nostri comincia qui, una lotta per la sopravvivenza con creature demoniache di ogni tipo, con la trama che praticamente si eclissa dopo pochi minuti (sommersa da scontri furibondi conditi da colpi proibiti, splatter e tanta fantasia).
A dire la verità, “Versus” è un polpettone in cui c’è poco da comprendere (in realtà non si capisce un cazzo fin da subito). Provate a immaginare due ore in una sola location (la foresta) sotto forma di videogioco: non c’è molto altro da aggiungere, se non il fatto che Kitamura con questa pellicola è riuscito a fare breccia nel mercato indipendente nipponico, capace di elevare questo film a prototipo per una nuova generazione di cineasti (pensiamo ad alcune uscite Sushy Typhoon del nuovo millennio, divise tra gore, nonsense e azione frenetica). Il regista comunque non si dimostra affatto uno sprovveduto: nell’opera la tradizione storica giapponese convive con un gusto ruffiano di marca americana, lo testimoniano una serie di coreografie (“Matrix” era uscito solo pochi mesi prima) e certe inquadrature che citano Sam Raimi e i suoi primi due capitoli di “Evil Dead” (anche in questo caso il bosco si rivela una cornice ideale per far muovere personaggi sia mostruosi che grotteschi). Grazie a questo approccio filo-occidentale, Ryûhei Kitamura – dopo il successivo divertente “Azumi” (2003) e altri titoli poco rilevanti (“Godzilla: Final Wars” incluso) – viene scritturato dai produttori statunitensi per una seconda parte di carriera non priva di soddisfazioni (ricordiamo soprattutto “Prossima Fermata: l’Inferno”, ispirato a un racconto di Clive Barker, oppure il più recente “No One Lives”).
“Versus” è un film truce e coatto ma godibile per quasi tutta la sua durata, un prodotto esagerato che trasforma ogni ferita in un cratere e ogni combattimento in una giostra a dir poco delirante. Ha una sua importanza storica, senza dubbio, ma è un lavoro che al di là dell’aspetto ludico non ha nulla di particolare per essere ricordato. Puro intrattenimento, solo per integralisti e cultori della materia giapponese.
(Paolo Chemnitz)