di Michael Haneke (Austria, 1997)
Le vicende di “Funny Games” partono da lontano, esattamente cinque anni prima con “Benny’s Video” (1992). In quel film Michael Haneke getta le basi concettuali del Male, raccontandoci la storia di un ragazzino che con una freddezza disarmante uccide una sua coetanea. Quel giovane è interpretato da Arno Frisch, uno dei due psicopatici che ritroviamo proprio nella pellicola in esame. Un’opera che rappresenta un caposaldo del cinema estremo di fine secolo, straniante e gelida quanto basta per disturbare lo spettatore in maniera chirurgica e improvvisa, come quel furioso pezzo grind-jazz dei Naked City che irrompe in apertura, mentre risuona in auto il lieto incedere della musica classica.
Le drammatiche vicende le conosciamo tutti: Peter e Paul, due giovani in apparenza gentili e garbati, prendono in ostaggio una famiglia in vacanza composta da padre (Georg), madre (Anne) e figlio (il piccolo Schorschi). Con la scusa delle uova (Haneke non a caso sceglie un alimento che una volta senza guscio, si sfalda definitivamente), i ragazzi si presentano alla porta di casa iniziando a molestare i tre malcapitati, presto costretti ad affrontare un incubo a occhi aperti. Un tormento sadico nei modi, beffardo nei dialoghi e asettico nella rigorosa messa in scena.
Quello che sembra un giochino surreale non è affatto uno scherzo (“vogliamo scommettere che voi in… diciamo dodici ore, sarete tutti e tre morti?”), il regista austriaco infatti capovolge le regole di un cinema dove stavolta due bamboccioni biancovestiti (con il viso da bravi figli di papà) si dimostrano più feroci di un qualsiasi lercio serial killer di provincia. Non a caso, il candore dei vestiti è solo un costume allegorico che nasconde le atrocità insite nel cuore della viziata borghesia tanto osteggiata da Haneke.
“Funny Games” si rivela una tortura psicologica esemplare, amplificata da una regia eccelsa che riversa su di noi le (non) emozioni generate dai protagonisti (con la violenza tenuta giustamente fuoricampo), in una formula matematica che nel giro di un’ora e tre quarti conduce dalle ariose inquadrature dall’alto dell’incipit allo zero assoluto della morte (lenta), continuamente posticipata. Il tutto calcolato con precisione svizzera, anzi austriaca per l’occasione.
Haneke è crudele anche nei confronti dei nostri occhi (l’illusoria uccisione di Peter in una scena questa volta ben visibile), perché subito dopo egli riavvolge il nastro lasciando che la frustrazione si impossessi di noi, vittime impotenti costrette a seguire quel sentiero irreversibile imposto dagli eventi (e non quello salvifico suggerito dall’immaginazione).
Inutile dedicare del tempo per vedersi il patinato remake americano shot-for-shot diretto dallo stesso Haneke dieci anni dopo, dopotutto non sono certo Naomi Watts o Tim Roth a migliorare quanto già di perfetto era stato concepito nel format originale. Invece sarebbe opportuno tornare indietro fino al 1972, anno di uscita de “I Visitatori”, film diretto da Elia Kazan che in qualche modo incarna il prototipo del futuro “Funny Games”, mutuato ovviamente da Haneke con un linguaggio estetico idoneo alla causa. Non c’è un briciolo di speranza tra i fotogrammi di questo capolavoro, ma solo un agghiacciante cinismo che prende vita nella purezza e nell’innocenza del vicino della porta accanto. Quello che di solito saluta sempre.