di Amat Escalante (Messico/Francia, 2005)
Di Amat Escalante, regista nato a Barcellona ma naturalizzato messicano, ne abbiamo già parlato molto. In attesa di vedere “The Untamed” (2016), facciamo un passo indietro tornando alle sue origini, con un film che precede quelli che, fino a oggi, sono i suoi lavori più interessanti: “Los Bastardos” (2008) ed “Heli” (2013), entrambi di notevole spessore. Tutte le principali caratteristiche del cinema di Escalante le troviamo in questo debutto del 2005, un film in realtà ancora acerbo e lontano dalla potenza (e dall’irruenza) dei successivi.
La trama è ridotta all’osso: Diego lavora come portiere all’interno di un palazzo governativo, il suo compito è quello di contare le persone che entrano nello stabile, invece sua moglie Blanca è impiegata in un fast-food. Quando la sera si ritrovano a casa, la loro vita è sempre uguale, divisa tra divano, qualche telenovela, poche parole e il sesso, ovviamente freddo e programmato (la scena dell’amplesso sul tavolo riesce a trasmettere un senso di squallore non indifferente). Diego è sottomesso, teme la gelosia della moglie, la quale ha in pugno un rapporto basato sulla routine più deprimente. Quando un giorno la figlia dell’uomo (Karina, nata da un precedente matrimonio) si rifugia tra quelle mura dopo essere scappata di casa, il padre non può che accoglierla nonostante il timore costante di una reazione negativa da parte di Blanca. Paure che si materializzano da lì a poco, tra conflitti e fraintendimenti che si concludono ovviamente con un amaro epilogo.
Amat Escalante dirige con personalità (a soli ventisei anni), non a caso “Sangre” riuscì a farsi notare proprio a Cannes nel 2005, con la vittoria del premio Fipresci nella categoria Un Certain Regard. La telecamera segue con apatia le vicende dei protagonisti, come se fosse contagiata dalla loro blanda e fiacca quotidianità: a tal proposito l’uso del fuoricampo è più che eloquente, a testimoniare quella statica sensazione di morte apparente all’interno di quella casa così spoglia e semplice. Quello che invece non convince è il risultato complessivo, novanta minuti scarsi nei quali il regista immerge una storia dilungata oltre il dovuto, una sorta di allenamento tecnico in vista dei risultati ben più confortanti raggiunti con le opere successive. “Sangre” infatti non ha molto da dire, se escludiamo quei concetti di base (personaggi disfunzionali e il loro difficile rapporto con la società) che ritroveremo con maggiore enfasi nelle sue pellicole più acclamate. Un debutto armato di un intrigante linguaggio estetico (tra i produttori c’è Carlos Reygadas, niente male), ma bisogna anche saper infondere un significato alle tante belle inquadrature che si susseguono sullo schermo. Per questo motivo “Sangre” non è ancora un film maturo, ma è il classico fiore in procinto di sbocciare.
(Paolo Chemnitz)