Paradise: Love

paradise lovedi Ulrich Seidl (Austria/Germania, 2012)

Originariamente Ulrich Seidl aveva pensato a un solo film diviso in tre segmenti. Ma le idee erano tante, così il regista austriaco iniziò a lavorare su un frammento alla volta, dando vita a una trilogia tra le più significative tra quelle realizzate in Europa durante questo decennio. “Paradise: Love” (aka “Paradies: Liebe”) precede “Paradise: Faith” (sempre del 2012) e l’ultimo, meno potenteParadise: Hope” del 2013, tre pellicole che condividono in parte alcuni luoghi e personaggi.
Teresa è una signora viennese di mezza età che decide di partire per una vacanza in Kenya (in un resort), lasciando la figlia adolescente presso un’amica. Una volta giunta sul posto, su invito di altre turiste sue coetanee, entra in contatto con alcuni giovani kenioti che sostano di fronte alla spiaggia per vendere souvenir (ma anche per offrire servizi sessuali). La protagonista è in cerca di un’avventura che non sia soltanto un passatempo carnale: resta infatti particolarmente colpita da Munga, il quale a differenza degli altri ragazzi sembra più timido e realmente interessato a lei. Tra i due nasce una breve relazione, ma ben presto Munga inizia a chiedere con insistenza alla donna denaro per la sua famiglia, rivelando le sue vere finalità. Affranta dall’esperienza, Teresa prova ad avere altri incontri con questi aitanti giovanotti, passando però di delusione in delusione.
Ulrich Seidl lo conosciamo bene: il suo cinema antiborghese tende a smascherare quel finto benessere insito in molti suoi concittadini. Così, dietro quella che sembra una vacanza come tante altre, si nasconde una storia di solitudine (la figlia che si dimentica di chiamare la madre nel giorno del suo compleanno) e di profondo disagio, mostrato soprattutto durante le scene di (anti)sesso, come negli imbarazzanti preliminari della moralista e sentimentale Teresa o – ancora peggio – nello squallido festino dentro la sua stanza con le sue amiche arrapate e un giovane del posto che non riesce a raggiungere l’erezione.
La pellicola ci sbatte in faccia un quartetto di cinquantenni in fuga dalla loro opaca quotidianità che utilizzano questi uomini come semplici oggetti sessuali, schernendoli e deridendoli con quel sottile razzismo intriso di luoghi comuni tipico delle classi sociali politically correct. Ma al regista basta una semplice inquadratura (frontale) per ribaltare la situazione: come nella geniale scena del bar nel villaggio turistico, con Teresa e la sua amica che si prendono gioco di un ingenuo cameriere, mentre Seidl le riprende da dietro sedute su uno sgabello, mostrando il loro culo lardoso e impresentabile. Loro ridono del negro, noi ridiamo di loro.
La grandezza di “Paradise: Love” sta proprio qui, nel raccontarci la tristezza disarmante che affligge questa comitiva di signore: persone vuote ma sempre con il sorriso stampato sulle labbra, inclusa la protagonista Teresa, segnata però dai sensi di colpa (i soldi elargiti con molta facilità) e da un fervore umano legato a una religiosità non mostrata ma suggerita (il clamoroso incipit in mezzo alla comunità di handicappati).
La regia di stampo documentaristico è come al solito impeccabile, ma stavolta c’è anche un lavoro non indifferente negli accostamenti cromatici (tende, vestiti, pareti, uno scambio di colori continuo tra i personaggi e le scenografie) e nei dialoghi, amari e taglienti fin dalle prime battute. “Paradise: Love” sale quindi sul podio tra i migliori film del regista, assieme alla rivelazione “Canicola” (2001) e al meno celebrato (ma eccellente) “Import/Export” (2007). Un cinema cinico, seducente e ironico, una lama affilata che viviseziona gli austriaci con una precisione chirurgica.

5

(Paolo Chemnitz)

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