di Yasuzô Masumura (Giappone, 1969)
La mancanza di un fronte compatto volto alla sperimentazione e all’avanguardia: ecco un motivo per il quale il cinema giapponese contemporaneo non riesce più a sdoganarsi da un linguaggio divenuto ultimamente troppo patinato e poco interessato agli aspetti underground. Eppure, la tradizione nipponica ha dalla sua un movimento che tra gli anni sessanta e settanta (ma con origini che vanno ricercate nel passato) ci ha regalato pellicole travolgenti, stravaganti e davvero singolari, grazie al lavoro di registi come Kaneto Shindô, Kōji Wakamatsu, Masao Adachi, Shûji Terayama, Toshio Matsumoto e Yasuzô Masumura (tra i tanti).
Proprio su quest’ultimo oggi focalizziamo il nostro sguardo: un cineasta con un curriculum importante (oltre sessanta film diretti) e un bagaglio di esperienze maturate anche in Italia, dove nel 1950 ebbe modo di frequentare il centro sperimentale di cinematografia di Roma (fu allievo di Fellini, Visconti e Antonioni).
“Blind Beast” è una delle pellicole più intriganti della succitata fiorente e vivace corrente, poiché poggia su tre protagonisti e su un unico ambiente claustrofobico, lo studio di uno scultore cieco di nome Michio. Egli rapisce una bellissima modella (Aki) segregandola all’interno di questo luogo, in modo tale da poter realizzare un’opera speciale, che possa elevare l’arte a una nuova dimensione tattile, da toccare e non da guardare. Quel posto tuttavia si rivela spaventoso: l’uomo lo ha riempito di sculture che riprendono le forme dell’anatomia umana, come nasi, orecchie, occhi, arti e corpi giganteschi che sbucano dalle pareti o dal pavimento, una memorabile scenografia surreale illuminata da continui giochi di luce ma allo stesso tempo una gabbia senza via di uscita per la ragazza, costretta suo malgrado ad assecondare la follia di Michio. Quando tra i due scatta una certa complicità, la possessiva madre del protagonista inizia a nutrire una forte gelosia per il figlio non vedente. “Blind Beast” si trasforma così da thriller psicologico in qualcosa di realmente sorprendente, contemplando un erotismo malsano di taglio sadomasochistico e un indimenticabile finale disturbante in chiave horror.
Masumura sfrutta un solido impianto teatrale senza mai mollare la presa emotiva sui personaggi, capaci di cambiare umore di continuo, mescolandosi tra loro nei ruoli di vittime e carnefici. Un pregio importante, incastrato all’interno di questo spazio angusto e inquietante, dal quale è impossibile fuggire. La soluzione è quindi interna al sistema e collima con un delirio crescente che scatena un triangolo morboso legato all’arte, all’amore e alla morte. Tutto funziona a dovere, anche quello score musicale poco invasivo ma di grande effetto, per un’opera che non è altro che l’adattamento di un romanzo (“Môjû”) del celebre Edogawa Rampo, scrittore che tanto ha ispirato il cinema di confine nipponico.
“Blind Beast” è uno psicodramma eccentrico e malato, un prodotto da guilty pleasure assicurato che si colloca tra le perle del Sol Levante uscite a cavallo tra i 60s e i 70s. Forse, alla pari di “Seisaku’s Wife” (1965), “Irezumi” (1966) e “Nuda Per Un Pugno Di Eroi” (1966), il film rappresenta uno dei vertici raggiunti da Yasuzô Masumura, un regista capace di lasciare dei solchi profondi nella sensibilità dello spettatore, soprattutto a fine visione.
(Paolo Chemnitz)