Faster, Pussycat! Kill! Kill!

fasterdi Russ Meyer (Stati Uniti, 1965)

Dobbiamo tantissimo alle opere di Russ Meyer. Non solo noi appassionati che ancora oggi continuiamo a rivedere per l’ennesima volta i suoi titoli cult, ma anche chi è cresciuto artisticamente con le sue pellicole (registi come John Waters o Quentin Tarantino hanno più volte dichiarato il loro amore assoluto per Meyer). Un simbolo del cinema (s)exploitation, un vero genio della trasgressione, capace di ribaltare gli equilibri tra uomini e donne diventando anche un idolo delle femministe. Inoltre dai suoi film hanno preso ispirazione molti gruppi musicali piuttosto celebri nei loro generi di riferimento, un record ancora imbattuto giunto a quota quattro tra gli anni ottanta e novanta. I nomi? Vixen, Faster Pussycat, Mudhoney e Motorpsycho, niente male davvero.
“Faster, Pussycat! Kill! Kill!” è un b-movie speciale, fin dalla prima frase proferita in apertura (“ladies and gentlemen, welcome to violence”). Tre prorompenti spogliarelliste (Varla, Rosie e Billie) se ne vanno in giro per il deserto del Mojave a bordo di potenti auto: prima sfidano in gara un malcapitato (che finisce con l’osso del collo spezzato), poi rapiscono la sua ragazza e infine si mettono sulle tracce di un anziano sulla sedia a rotelle che vive con i due figli in un ranch isolato. L’uomo lì nasconde un’ingente somma di denaro, così le tre ragazzacce decidono di seguirlo per poi rapinarlo. Ne succedono di tutti i colori, ovviamente.
Russ Meyer, qui al suo ultimo film in b/n prima della svolta pop di “Vixen” (1968), trova il suo stato di grazia per una serie di fattori a dir poco esplosivi. A cominciare da Varla, interpretata dalla maggiorata Tura Satana, trucida (anti)eroina del cinema exploitation, una donna cazzuta, schietta e veramente stronza, figura imponente che si traduce con un’icona ancora oggi celebrata dai fan del regista. Ma anche gli altri personaggi non sono da meno: rappresentano una nazione piena di contraddizioni, con il sogno americano da una parte (l’innocua e anonima coppietta presa di mira in apertura) e un oscuro sottobosco umano dall’altra (incarnato dallo squallore di quel ranch e dall’ambiguità degli individui che lo abitano), tematica quest’ultima già affrontata da Meyer nei suoi validi drammi rurali ambientati nel profondo sud, ovvero “Lorna” (1964) e “Mudhoney” (1965).
Lo stile da cartoon, i dialoghi proto-pulp, le accattivanti inquadrature e alcuni esilaranti siparietti da commedia (la sosta al benzinaio raggiunge livelli epici) aggiungono altro sale a un film che tiene davvero incollati allo schermo, perché nonostante una sceneggiatura scarna e frettolosa a tenere banco sono le scoppiettanti dinamiche che mettono a confronto i vari protagonisti della pellicola. Tura Satana è la femme fatale definitiva, un’attrice difficile da gestire sul set (Russ Meyer litigò più volte con lei), la vera chiave di volta di un film inoltre permeato da una deriva lesbo non dichiarata ma sottilmente presente nel rapporto tra lei e Rosie. Anche perché qui gli uomini sono degli smidollati praticamente ridotti allo stato vegetale, non contano nulla.
Il titolo del film contiene i tre elementi ricorrenti di questi 83 minuti di visione: la velocità delle automobili (faster), il sesso (pussycat) e la violenza (kill). Un’opera da amare senza porsi troppe domande, è il culto grindhouse che nel 1965 fissa i dettami per la grande stagione exploitation del decennio successivo. Tette, motori e tanto sano divertimento.

5

(Paolo Chemnitz)

faster pussycat

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