di Damien Power (Australia, 2016)
Non tutto è oro quel che luccica, tantomeno nel cinema ozploitation. Gli australiani hanno una loro identità storico/geografica e sono capaci di collocare gli orrori all’interno di un preciso ambiente (in molti casi l’outback), ma sono molti i fattori che decretano la riuscita di un film. Senza andare troppo indietro con gli anni, un titolo come “Wolf Creek” (2005) è piuttosto eloquente: una location suggestiva, un villain perfetto e tanto sangue per un divertimento assicurato (stereotipi a parte).
“Killing Ground”, opera prima (dopo tanti corti) di Damien Power, segue un altro registro: qui le (dis)avventure dei protagonisti riportano in mente le atmosfere del britannico “Eden Lake” (2008), mentre la regia cerca di intraprendere un percorso tortuoso fatto di incastri, di piani temporali che si rincorrono e di qualche raffinatezza autoriale che riesce tutto sommato nel suo intento. Ma il risultato definitivo non è affatto soddisfacente, proprio per via di una formula complessa, ellittica e poco incline a semplificare le regole del gioco, il quale con il passare dei minuti diventa molto più elaborato di quanto possa realmente sembrare.
Eppure quella di “Killing Ground” è una gita come tante altre: due fidanzati si recano in campeggio in un luogo incontaminato (un laghetto con bosco adiacente), dove trovano come unici vicini di tenda una famiglia composta da padre, madre, figlia adolescente e neonato. Ma nei dintorni si aggirano due balordi in vena di crimini. Le storyline non si intrecciano subito, Damien Power mescola le carte a più riprese ma tiene a debita distanza i protagonisti, introducendoli un po’ alla volta senza premere il piede sull’acceleratore. Poi, quando inizia a seminare di indizi la pellicola (i quattro vacanzieri spariscono nel nulla), il film da un lato ingrana con il ritmo ma allo stesso tempo si perde in un bicchiere d’acqua per i motivi di cui sopra. La colpa è da attribuire anche ai vari personaggi, nessuno capace di catturare al meglio la nostra attenzione (bifolchi compresi), in un contesto da classico survival movie che prova a distinguersi dagli altri risultando però pretestuoso oltremisura. In questo piattume psicologico qualcosa da salvare c’è, ovvero la tensione che si respira durante le immagini del tiro a segno (e scatta irrimediabilmente il guilty pleasure). Ritroviamo le vittime legate a un albero (con una lattina in testa), mentre i due psicopatici armati di fucile sono pronti a fare fuoco sul bersaglio: basta sbagliare la mira di pochi centimetri e il danno è fatto.
“Killing Ground”, passato sugli schermi dell’ultimo Sundance, paga una struttura narrativa che non valorizza affatto le intenzioni del film, snaturandone il potenziale in maniera drastica. In questo caso non c’era bisogno di tre subplot, ma di una storia corale, diretta e travolgente. Purtroppo, senza solide fondamenta, il castello crolla al primo colpo di vento.
(Paolo Chemnitz)