di Shinya Tsukamoto (Giappone, 1989)
Game over. “Tetsuo: The Iron Man” si conclude come un videogioco. Dopotutto il cinema cyberpunk mette in connessione varie componenti: fumetti, videogames, letteratura, realtà (virtuale) e decadenza post-industriale, un frullato di influenze che interagiscono di continuo tra loro, fino al cortocircuito finale. Praticamente quello che accade qui. E’ il 1989 e Shinya Tsukamoto sconvolge il linguaggio cinematografico con questo capolavoro senza tempo, una scheggia impazzita che proietta il genere oltre i confini della sua stessa essenza, ampliandone concetti e contenuti. Il regista nipponico fagocita la sua creatura dentro un turbinio di sensazioni: la storia finisce inglobata nella convulsione delle immagini, nel montaggio nevrotico e nelle accelerazioni in fast forward, un ammasso di ferraglie continuamente sfregate dal rumorismo industrial di Chu Ishikawa, artefice di uno score alienante che moltiplica al quadrato la potenza visiva del film.
L’uomo che si innesta parti meccaniche nel corpo è il livello ultimo dell’evoluzione umana. Dall’homo sapiens all’homo industrialis, ma in versione apocalittica. Il progresso non è più creazione, ma diventa (auto)applicazione, poiché esso viene introdotto con la forza sotto la nostra pelle, generando infezioni, ruggine e mutazioni irreversibili. Il protagonista quindi personifica lo stato conclusivo della nostra specie, quello unicamente distruttivo che non prevede un futuro, anche perché l’organo sessuale per la riproduzione non è più capace di concepire sperma (il pene è sostituito da una trivella metallica che stupra, devasta e uccide). Un sesso meccanico, privo di qualunque emozione, argomento poi ripreso con spunti convincenti da Shozin Fukui in “√964 Pinocchio” (1991), altro importante prodotto del cyberpunk giapponese. “Tetsuo” rivela così un forte contenuto erotico che non prevede la castrazione della libido, bensì la sua liberazione definitiva in atti sessuali estremi e violenti, da ambo le parti (la scena della sodomizzazione con il tubo-dildo non è casuale).
Dopo Cronenberg, anche Tsukamoto dà vita a una nuova carne: in questo caso la sua funzione è puramente consequenziale allo sviluppo mastodontico delle metropoli e della tecnologia, è un passaggio obbligato per l’accettazione della realtà, non rappresenta la modernità al servizio dell’essere umano ma il contrario, l’uomo asservito e soggiogato alla crescita esponenziale incontrollata di qualunque cosa attorno a lui, creata da lui. Da qui dolore, paranoia e impotenza, senza possibilità di invertire marcia. “Tetsuo” perciò si rivela profetico e concettuale. Il cyborg è l’unica entità capace di adattarsi al cambiamento dei tempi, è la metamorfosi che fonde carne e metallo annullando persino i confini identitari tra maschile e femminile, un dualismo di cui si parla proprio nel manifesto cyberfemminista curato da Donna Haraway pochi anni prima. La Haraway nel suo libro introduce esattamente questa figura, la quale da invenzione fantascientifica diventa metafora della condizione umana: “il cyborg è un organismo cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, una creatura che appartiene tanto alla realtà sociale quanto alla finzione.”
Shinya Tsukamoto crea quindi il corpo sperimentale, che può essere manipolato: cade il mito che lo vede come sede di una naturalità intoccabile opposta all’artificialità. Di conseguenza viene invalidato il sistema di pensiero occidentale incentrato sulla contrapposizione di due elementi antitetici, perché non possiamo più pensare all’uomo in termini esclusivamente biologici. Pensieri già esistenti ma portati al limite dell’esasperazione dal regista giapponese: una rivoluzione non solo cinematografica, ma culturale, sociale e antropologica, riassunta tra le immagini di un bianco e nero debordante, il post-umano incastonato nella nevrosi incurabile della nuova era.
(Paolo Chemnitz)