di Sofia Exarchou (Grecia, 2016)
Paradossalmente, il default in Grecia iniziò proprio in concomitanza con lo svolgimento delle tanto agognate Olimpiadi del 2004. Un impegno economico enorme che prevedeva nuove infrastrutture e l’ammodernamento di quelle già esistenti, un passo che si rivelò più lungo della gamba. Subito dopo i giochi di Atene, molti luoghi simbolo furono letteralmente abbandonati a se stessi: il villaggio olimpico (240 milioni di euro investiti) fu lasciato al suo destino, mentre alcuni impianti furono chiusi in un tripudio di catene ed erbacce, uno sperpero senza precedenti che qualcuno doveva pagare. La Grecia, ovviamente.
Il debutto di Sofia Exarchou (passato anche sui prestigiosi schermi di Toronto) coglie la crisi alla sua genesi, traducendola in una metafora spiazzante e alienante: la regista gira proprio nei luoghi della decadenza, infilandoci dentro le nuove generazioni, ragazzini che passano il tempo a rovistare tra i cassonetti, a prendersi a botte (scherzando e non) o a scommettere facendo combattere tra loro dei cani randagi. In questo caos primordiale emerge la figura di Dimitris, un giovane allo sbando con una madre alcolista e quella voglia di cambiare vita uscendo da questo recinto invisibile insieme alla sua ragazza.
“Park” ha potenziale, concettualmente è inattaccabile, ma si perde con il trascorrere dei minuti. La Exarchou tende a ripetere gesti, azioni e situazioni all’inverosimile, generando un senso di già visto anche quando il film atterra verso le battute conclusive. Neppure le immagini della festa in spiaggia cambiano le carte in tavola, anzi a volte il trasporto documentaristico della regia cerca di sdoganarsi dalle rigide regole della new wave greca, ma la strada alternativa battuta da “Park” al massimo collima con certe suggestioni d’oltreoceano (torna in mente Harmony Korine), senza però quei lampi shock che qui avrebbero rimpinguato notevolmente la sostanza.
Il linguaggio weird surreale di Lanthimos è lontano miglia, questa pellicola infatti si accoda a quei lavori che in terra ellenica hanno affrontato la crisi con il realismo più drammatico: parliamo ad esempio di “Boy Eating The Bird’s Food” (2012) e di “Luton” (2013), opere che si focalizzano maggiormente sui personaggi rispetto al film in esame, capace di avvolgere lo sguardo prima di tutto con quello scheletro di cemento che si erige nel nulla, circondato da infinite sterpaglie. Là in mezzo, questi ragazzi perduti, il destino di un popolo che cerca di risollevarsi con orgoglio dalle rovine, affrontando quotidianamente enormi difficoltà. Ma il cinema greco sembra aver detto praticamente tutto riguardo questa tematica, così “Park”, nonostante il lacerante pessimismo di fondo, si rivela un prodotto realizzato fuori tempo massimo.
Sofia Exarchou (insieme ad Athina Rachel Tsangari, la regista di “Attenberg”) ha in mano le chiavi per apportare nuova linfa a una scuola cinematografica ellenica che si esprime anche al femminile, ma a questo punto un cambio di rotta è più che auspicabile. I concetti li abbiamo assimilati per bene, ora forse sarebbe il caso di dare più spazio alla narrazione.
(Paolo Chemnitz)