di Jörg Buttgereit (Germania Ovest, 1987)
L’amore malato nel cinema di Jörg Buttgereit trova il suo zenit assoluto in “Nekromantik”, ma ha le radici piantate nel passato. Il cortometraggio “Hot Love” (1985) è di soli due anni addietro ma rappresenta praticamente una prova generale per questo cult horror tanto apprezzato dai seguaci del cinema di confine underground. Le atmosfere marce, la colonna sonora funerea, il budget esiguo, Buttgereit trasforma la sua precedente esperienza di amarezza e dolore in una nuova avventura sempre incentrata su un rapporto di coppia con un terzo incomodo. Solo che stavolta i due fidanzati condividono una perversione non da poco, la necrofilia.
Rob lavora in una ditta di pronto intervento per gli incidenti stradali, a volte gli capita di sottrarre dal luogo del sinistro qualche macabro reperto umano da conservare poi a casa in formalina. Ma quando riesce a portarsi via un cadavere intero, tra quelle quattro mura accade di tutto: alla carcassa viene applicato un tubo metallico come pene artificiale, così il ménage à trois diventa l’inevitabile sfogo sessuale dei due protagonisti, un equilibrio malsano destinato comunque a spezzarsi. In maniera a dir poco allucinante.
“Nekromantik” non è un film che intrattiene con un ritmo adeguato, nonostante la breve durata (settantacinque minuti). A volte le vicende non sembrano trovare sbocchi, ma la forza dell’opera va ricercata nelle atmosfere marce che trasuda ogni singolo fotogramma, un tuffo nella perversione umana senza nessuna patina confortante per gli occhi dello spettatore. Il segreto è il realismo, la formula vincente di un regista capace poi di ripetersi con maggiore enfasi concettuale nei successivi deprimenti “Der Todesking” (1990) e “Schramm” (1993).
Ma dietro questo lavoro c’è dell’altro: lo score musicale è mortifero, straziante e allo stesso tempo romantico (nelle note di piano), un marchio funebre (realizzato quasi esclusivamente da Daktari Lorenz, qui anche attore) che lascia tracce indelebili e brividi profondi. Poi c’è l’elemento perturbante (quale rapporto intercorre tra i due protagonisti e il simpatico faccione di Charles Manson appeso sulla parete?) ma anche quello prettamente disturbante (la scena del gatto, molto più diretta rispetto alla routine necrofila su cui girano gli eventi), un mix deleterio che sopperisce alla mancanza di budget e a una serie di effetti piuttosto amatoriali.
“Nekromantik” è il connubio tra amore e morte, un binomio indissolubile spesso citato nel tormentato panorama artistico tedesco, qui però portato alle estreme conseguenze. Sangue e sperma non simbolizzano più la vita, ma rappresentano le onde impetuose di una fine imminente, la sintesi deviata di quel sehnsucht patologico di ispirazione ottocentesca. Jörg Buttgereit crea lo shock e impone un modello che in Germania viene preso come esempio da altri registi underground (Andreas Schnaas e Olaf Ittenbach su tutti), onesti artigiani di una corrente che trova proprio nel decennio successivo un forte impulso (alimentato anche dal sequel “Nekromantik 2”, diretto da Buttgereit nel 1991) in netta controtendenza con quello che stava accadendo al cinema horror negli altri paesi. Un passaggio fondamentale.
(Paolo Chemnitz)