di Tobe Hooper (Stati Uniti, 1974)
Il titolo italiano “Non Aprite Quella Porta” non ha la stessa potenza di quello originale, “The Texas Chainsaw Massacre”. Non tanto per il massacro e la motosega, quanto per l’identificazione dell’orrore con uno stato americano in particolare, il Texas, un tempo addirittura indipendente e da sempre con una sua peculiare identità. Un luogo impervio, attraversato a ovest dal deserto e a est dalle paludi, uno snodo cruciale per il cinema di genere (pensiamo al western) proprio per la sua natura selvaggia e misteriosa. Che ovviamente si riflette sui suoi abitanti, almeno quelli delle zone più rurali e arretrate, diffidenti nei confronti degli stranieri e inquietanti nei loro comportamenti: ce lo ha insegnato prima di chiunque altro (nel 1964) il compianto Herschell Gordon Lewis con “2000 Maniacs!”, anche se i protagonisti in negativo del suo film erano soltanto dei generici individui che sventolavano bandierine sudiste. La casa dove si svolgono i terribili fatti legati a “Non Aprite Quella Porta” appartiene totalmente a questo mondo lontano dalla civiltà, un non-luogo che si pone come isola con le proprie regole e la propria autonomia (il generatore di corrente).
La storia la conosciamo tutti: un gruppo di cinque studenti è in viaggio nel Texas più remoto, la loro strada però si incrocia inesorabilmente con quella di uno dei più celebri villain del cinema horror, Leatherface, un ritardato mentale che indossa una maschera di pelle umana e un grembiule da macellaio insanguinato, brandendo per aria una motosega che utilizza per fare a pezzi le sue vittime. Ma soprattutto – aspetto più destabilizzante – non parla.
La pellicola è parzialmente ispirata alle gesta del folle Ed Gein, soprattutto da un punto di vista scenografico rispetto a quello puramente biografico (gli interni della dimora e le macabre suppellettili riprendono quelle realmente ritrovate dalla polizia in casa Gein). Tobe Hooper riesce quindi a far camminare l’opera sulle proprie gambe, senza dover per forza ricalcare l’aspetto iconografico di un solo personaggio (a quello ci penserà il contemporaneo “Deranged”). Anzi, il suo intento è quello di affondare un colpo nel presente e non nel passato, in quell’America ferita dalla guerra del Vietnam e lacerata da contrasti sociali sempre più acuti e pericolosi.
“Non Aprite Quella Porta” è il marciume fatto cinema, dal primo all’ultimo fotogramma. Si tratta di un horror dove ogni individuo che appare sullo schermo ha un ruolo determinante, dall’autostoppista fuori di testa (che incarna la metafora della premonizione nefasta) alla final girl Sally (interpretata da Marylin Burns, scomparsa solo tre anni fa), la vera scheggia impazzita che anticipa quella figura di donna coraggiosa e determinata che ritroveremo in un’infinità di pellicole successive.
Avremmo potuto spendere fiumi di parole per celebrare un capolavoro simile, ci siamo limitati invece a scrivere un piccolo resoconto proprio perché è stato detto veramente di tutto su “Non Aprite Quella Porta”. Questo è solo un tributo che ancora una volta ci fa riflettere su quanto fosse unico e affascinante il cinema horror degli anni settanta, capace di regalarci prodotti dal valore inestimabile con budget tutt’altro che imponenti. Una sola parola: immortale.
(Paolo Chemnitz)