di Shinya Tsukamoto (Giappone, 1998)
“Bullet Ballet” è un film sulla violenza. Vivere in una metropoli come Tokyo significa conoscerla e dover scendere a patti con essa, perché evitarla è solo un modo per anestetizzare la sua presenza. Ci segue come un’ombra, ci perseguita nell’aria che respiriamo e quando si manifesta davanti ai nostri occhi, non possiamo che accettarla. Esattamente ciò che succede a Goda, un uomo sconvolto dal suicidio della sua compagna, costretto suo malgrado a rimettere in discussione la sua esistenza e a tuffarsi nei meandri di una città malfamata popolata da gang, le stesse che frequentava (a sua insaputa) l’ormai ex fidanzata passata a miglior vita. Una spirale che Shinya Tsukamoto dipinge nel miglior modo possibile, con un b/n sgranato di ruvida bellezza, riallacciandosi in parte ad alcune suggestioni viste in “Tetsuo: The Iron Man” (1989), una nevrosi urbana raccontata attraverso un montaggio a tratti dirompente e schizofrenico e accompagnata dalla sempre valida colonna sonora di Chu Ishikawa (scorie post-industriali che non lasciano di certo indifferenti).
Un paesaggio nel quale l’uomo si identifica con l’atmosfera circostante: una contaminazione con il cemento, con le luci al neon, con l’acqua che fuoriesce dalle tubature, uno scambio continuo nel quale anche la sessualità sembra ibridarsi (la figura androgina di Chisato, una sorta di esile bambolina dal fascino misterioso ed intrigante).
Goda, interpretato dallo stesso regista (factotum come al solito, nelle vesti di sceneggiatore, fotografo, montatore e produttore), resta invece abbagliato da una ricerca per lui tutta nuova. Egli si rigenera così come forgia il proiettile, un binomio che si riflette nel titolo dell’opera, perché il suo è un balletto in bilico tra la vita e la morte, proprio come quello di tutti i personaggi immersi nelle vicende (la scena della metropolitana con protagonista Chisato è molto eloquente).
Tsukamoto lascia spazio a delle immagini visivamente sublimi, le quali come spesso accade nel suo cinema fagocitano la narrazione stessa, qui ridotta a una serie di frammenti da ricongiungere uno ad uno, un iter complesso che non sempre percorre la strada della logica lasciandoci disorientati in un labirinto mentale tutt’altro che facile da elaborare. Ma poco importa davanti al bombardamento visionario che offre “Bullet Ballet”, una scheggia impazzita che si incastra nel cervello come se stessimo guardando un videoclip furioso e meccanico. L’individuo non è più macchina, ma è il mero prodotto della metropoli e solo scendendo nei meandri più oscuri di essa egli può carpirne i segreti e gli umori nascosti. Che si traducono in quella violenza tragica ed esistenziale utilizzata come mezzo di liberazione, esattamente come era accaduto nel precedente “Tokyo Fist” (1995), nel quale lo strumento chiave per compiere tale percorso era la boxe (oppure il sesso, se invece pensiamo al sensuale e perverso “A Snake Of June” del 2002).
Un grande cinema concettuale, sia cerebrale che corporeo, questo è Tsukamoto. Un regista da amare.
(Paolo Chemnitz)