di Sean Brosnan (Stati Uniti, 2016)
Quante volte il cinema ci ha raccontato storie legate alla vendetta? Impossibile fare il conto di un numero indefinito, ciò che importa per un regista al debutto e alle prese con queste tematiche è solo sapersi districare nell’abbondanza di produzioni indipendenti (e non), proponendo qualcosa di realmente originale. Sean Brosnan ovviamente non inventa nulla di nuovo, ma riesce comunque a girare un buon film, con una dose di violenza al di sopra della media e un incedere drammatico che almeno in partenza ricorda alcune cose già viste nell’ottimo “Blue Ruin” (2013) di Jeremy Saulnier, pellicola incentrata sulla vendetta familiare esattamente come questa in esame.
L’incipit è in b/n: Asher, un ragazzino di 12 anni, durante uno scatto d’ira del padre è colpito talmente con forza da perdere l’udito e la parola a causa del trauma subito. Nello stesso istante, il padre uccide il fratello maggiore del giovane. Ci troviamo nella profonda Louisiana, tra paludi, baracche di legno e un degrado che contagia anche i personaggi. Dopo oltre vent’anni, l’uomo esce dal carcere per sovraffollamento e buona condotta, così il momento tanto atteso da un ormai adulto Asher lo porta a mettersi sulle tracce del genitore, per compiere una giustizia privata meditata nel corso di tutto quel tempo.
“My Father Die” è un film carico di odio e rancore, elementi che prevaricano ogni forma di perdono all’interno di una famiglia ormai distrutta. Il ragazzo protagonista riesce a esprimersi solo a gesti o scrivendo su biglietti di carta, una costrizione psicofisica che trova il suo complemento nella rabbia incontrollata con la quale egli si sfoga (in più di una scena lo vediamo in assetto da guerra col fucile e un copricapo di pelliccia), prima di uno scontro decisivo che si rivela devastante, amaro ma anche sorprendente.
Nonostante una storia già vista (sceneggiata dallo stesso Brosnan), il film è trascinato da una bella fotografia e da una serie di validi personaggi immersi nello squallore più assoluto, ognuno costretto ad arrangiarsi nel quotidiano vivendo praticamente alla giornata. Inoltre l’opera tocca a tratti delle succose derive horror, grazie a quelle impennate di marca exploitation che aiutano a far scivolare meglio la pellicola (ci riferiamo a piedi fracassati, a una scena di stupro e a un discreto spargimento di sangue). “My Father Die” riesce così a rivelarsi una piacevole visione, nonché un’interessante novità all’interno del cinema indie americano, mai stanco di raccontarci storie di ordinaria follia dalle zone più remote e dimenticate.
(Paolo Chemnitz)