Gummo

gummodi Harmony Korine (Stati Uniti, 1997)

Harmony Korine è un regista che nel circuito indie americano ha bruciato le tappe molto velocemente. A diciannove anni, egli scrive la sceneggiatura di “Kids” (1995) per Larry Clark e poco dopo dirige il suo primo lungometraggio, “Gummo”, disturbante vicenda su un gruppo di sopravvissuti a un tornado ambientata a Xenia (Ohio) e narrata in modo frammentato: un affresco nichilista della provincia americana che alla sua uscita spaccò in due la critica. Ad ogni modo, gli elogi importanti arrivarono eccome, soprattutto da Werner Herzog e da Gus Van Sant, il quale definì la pellicola geniale, ribelle e velenosa.
In realtà, “Gummo” è un film girato con criterio (anche con la camera a mano) ma effettivamente sconclusionato, un lavoro che però trae linfa proprio da questo caos: indubbiamente Korine aveva in mente molte idee, ma il succitato cataclisma – prima di colpire Xenia – deve aver centrato la sua testa, come se egli avesse sparso un mazzo di carte alla rinfusa lasciando gli assi (i personaggi) comunque ben in vista. Ecco perché Tummler e Solomon non si dimenticano facilmente, così come la talentuosa Chloë Sevigny nei panni di Dot, oltre a una passerella di freak e di altri individui grotteschi da far spavento.
Questi due ragazzini passano le giornate a catturare gatti randagi da rivendere a un macellaio, in cambio di un po’ di soldi o di colla da sniffare: tuttavia, questo è solo un abbozzo di storia, un timido approccio che taglia in maniera trasversale un continuum di situazioni a se stanti sempre avvolte nel degrado di una cittadina ormai devastata, anche nella morale dei suoi superstiti.
Tutto è così weird, così strambo, a cominciare da Bunny Boy, il giovane che nell’incipit piscia giù da un cavalcavia sulle auto che passano. L’innocenza allo sbando che perde il controllo, quasi un’entità simbolica all’interno della pellicola. Anche la colonna sonora – qui molto importante – non segue un percorso coerente, ma sottolinea l’aspro incedere del film attraverso l’uso di pezzi riconducibili sia al metal più estremo (Absu, Burzum, Bathory, Bethlehem…) che a quello più sperimentale (con qualche puntata nel pop o in generi maggiormente accessibili).
“Gummo” è questo, un film da prendere o lasciare senza vie di mezzo, un manifesto generazionale che amplifica quel disagio realistico mostrato nel cinema dalle opere contemporanee di Larry Clark, quello stesso disagio qui trascinato in una dimensione più oscura, surreale e anarchica, verso un non luogo che mostra solo rovine umane e paesaggistiche. All’interno di tale squallore, resta impressa la scena di Solomon che mangia un piatto di spaghetti dentro una vasca ricolma di acqua lercia, con i capelli insaponati dallo shampoo. Una delle tante istantanee che hanno reso celebre il film, la metafora perfetta del disordine sociale (un messaggio crudo e distorto capace di segnare in maniera indelebile la carriera del regista).
Una curiosità: durante le riprese, alcune persone cacciarono Korine e la sua crew pensando che egli stesse girando un porno con protagonisti minorenni. Una delle tante storie che si celano dietro un’opera unica e straniante ma anche incompleta e improvvisata. Da vedere tassativamente almeno una volta nella vita.

4,5

(Paolo Chemnitz)

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