di György Pálfi (Ungheria, 2006)
“Taxidermia” è un film che traccia l’esistenza di tre uomini della stessa famiglia, ognuno dei quali legato indissolubilmente e in maniera davvero perversa a un aspetto cruciale della vita (sesso, cibo e morte). Novanta minuti divisi in tre segmenti dedicati prima al nonno, poi al figlio e poi al nipote, epoche diverse che attraversano l’Ungheria della guerra, quella del comunismo e infine quella dello scorso decennio.
La prima storia è ambientata durante il secondo conflitto mondiale: Vendel Morosgoványi è un soldato semplice ossessionato dalla masturbazione, la quale viene da lui praticata nei modi più bislacchi, addirittura applicando sul pene in erezione una fontana di fuoco per un allucinante effetto weird circense. Oltre a questo, è anche un voyeurista convinto. Un primo assaggio (non il migliore) di un film che lascia intravedere non solo dei personaggi deplorevoli, ma anche quell’alone grottesco che ci accompagna per tutta la durata della pellicola.
Kálmán Balatony è un’atleta della nazionale ungherese di abboffata sportiva, proprio così. Un uomo obeso che prende parte a un campionato tra paesi del blocco sovietico nel quale bisogna ingurgitare enormi cucchiaiate di cibo nel minor tempo possibile. Dalla gara con la zuppa si passa a quella con la carne in gelatina, scene ributtanti culminate con i fiumi di vomito dei partecipanti, rese in maniera così realistica (in un contesto storico ben scenografato) da far impallidire i conati gratuiti della famigerata trilogia vomit gore diretta da Lucifer Valentine. Un episodio cult, nel quale sembra di assistere a una passerella di personaggi usciti da un quadro di Botero, individui legati in maniera morbosa al cibo inteso come motore di vita, di amore e di morte. Quest’ultimo elemento lo ritroviamo nel terzo e conclusivo capitolo, incentrato sulla figura di uno scheletrico Lajoska Balatony, un tassidermista obbligato ad accudire il padre anziano ormai incapace di muoversi per la sua stazza imponente. Qui le atmosfere si fanno cupe, claustrofobiche, a voler testimoniare quella fine imminente che il regista lascia nelle mani di Lajoska, costretto a sopportare i continui lamenti del padre, ancora legato con orgoglio alla sua assurda carriera di mangiatore da competizione (“c’è una tecnica del vomito che porta il mio nome”).
“Taxidermia” mostra delle intriganti ma non ingombranti pretese sociali, anche se questo excursus storico nell’Ungheria del passato potrebbe far pensare a un film politico. György Pálfi sembra più interessato alla decadenza umana in senso lato, senza per forza doverla ricollocare all’interno delle istituzioni. Tre generazioni che comunque si gonfiano di significati fino a scoppiare, con la morte a rappresentare l’interruzione dell’albero genealogico, l’autodistruzione di un paese prima in guerra (la perversione), poi nutrito dalla dittatura bulimica (cibo e vomito) e infine ingolfato e tramortito dalla democrazia e dal capitalismo (il deperimento).
Un simbolismo studiato ad hoc, talmente perfetto e pragmatico da scioccare fino a un certo punto, ma supportato da un lavoro registico di spessore che rende questo “Taxidermia” un prodotto singolare, originale e realizzato con molta cura per i particolari, anche quelli più disgustosi. Meglio guardarlo a digiuno, non si sa mai.
(Paolo Chemnitz)