di Alan Clarke (Gran Bretagna, 1979)
“Scum” nasce nel 1977 come episodio per una serie tv antologica britannica della BBC (“Play For Today”). Troppa violenza però, la puntata viene rifiutata ma il regista Alan Clarke è intenzionato comunque a proseguire su quella strada, così due anni dopo “Scum” esce come lungometraggio in una versione ancora più dura e politicamente scorretta.
Quello di Clarke è un atto di condanna che prende di mira i Borstal, centri di detenzione per giovani criminali che furono oggetto di pesanti critiche da parte dell’opinione pubblica nel Regno Unito, fino alla loro abolizione nel 1983. In queste carceri (nelle quali erano destinati ragazzi fino a 23 anni di età) i metodi erano punitivi e quotidianamente si assisteva a gesti di brutalità commessi sia dallo staff verso i detenuti che tra i giovani stessi, una feccia (come suggerisce il titolo del film) composta da adolescenti problematici e disagiati ma anche da psicopatici assassini.
La pellicola si sofferma su un gruppo di protagonisti appena arrivati nell’istituto: c’è Carlin (interpretato da Ray Winstone), giunto lì per essersi preso la colpa di un furto in realtà commesso dal fratello, poi c’è Angel, arrestato per aver rubato una macchina e infine troviamo Davis, scappato da una precedente detenzione. Carlin in apparenza prova a mantenere un profilo basso (onde evitare il bullismo e le rappresaglie dei più anziani) facendo anche amicizia con Archer, un ragazzo colto ed eccentrico il quale con i suoi atteggiamenti crea più di un imbarazzo al personale del Borstal.
Il regista è orientato verso un forte realismo sociale che non risparmia nessuna dinamica controversa: a un linguaggio molto duro e diretto si somma la violenza psicologica devastante a cui devono sottostare i più deboli del branco, costretti a subire insulti razzisti ma anche molestie sessuali. Sopravvivere in questo gioco al massacro è un calvario quotidiano che non tutti sono capaci di sopportare: la disperazione di alcuni giovani è palpabile e la nostra sensibilità è messa a dura prova quando assistiamo a un paio di scene veramente insostenibili, come quella di un suicidio talmente drammatico da far accapponare la pelle.
“Scum” è un film di denuncia che muove i suoi passi all’interno di un riformatorio, un prototipo di prison movie che trasferisce il suo linguaggio specifico dal mondo degli adulti a quello dei più giovani, un percorso che ritroviamo in molte altre opere successive (un valido esempio è il dramma brasiliano “Pixote” del 1981, diretto da Héctor Babenco, mentre è del 2010 “Dog Pound”, una sorta di remake canadese di “Scum”). Alan Clarke, costretto ad allungare il brodo a quasi cento minuti per questa sua versione cinematografica, non sempre è capace di infondere alla narrazione il giusto ritmo, ma questo neo rappresenta un piccolo difetto che non inficia sul giudizio complessivo del film, ancora oggi ritenuto un pugno nello stomaco non indifferente. In questo degrado delle istituzioni e di una irrecuperabile gioventù bruciata, l’unico vincitore morale sembra essere Archer, personaggio ironico e intellettuale, un individuo capace di rappresentare l’elemento anomalo, una scheggia indecifrabile per i dirigenti di quell’istituto. L’arma della diversità, della dialettica, dell’intelligenza: per Alan Clarke una possibilità di salvezza, forse.
(Paolo Chemnitz)