di Daisuke Yamanouchi (Giappone, 1999)
“Red Secret Room”, conosciuto anche come “Red Room”, è il film più celebre tra quelli diretti da Daisuke Yamanouchi (insieme al contemporaneo “Muzan-E”). Si tratta di prodotti destinati direttamente al mercato home video, vista la loro natura prettamente amatoriale, oggetti di culto che non possono mancare nella collezione di ogni cinefilo estremo che si rispetti.
“Red Secret Room” è la cronaca disturbante di un reality show con quattro concorrenti, un uomo e tre donne: il gruppo è rinchiuso in un stanza illuminata da fari rossi e il gioco consiste nel scegliere delle carte, tre delle quali rappresentano un numero e la restante una corona. Chi pesca la corona decide quale penitenza assegnare a due dei protagonisti, mentre un terzo può assistere passivamente. Oltre a un tavolo, in quel posto c’è una scatola piena di oggetti e una gabbia nella quale le vittime vengono rinchiuse per eseguire gli ordini del giudice di turno. Chi desiste viene squalificato, chi resiste fino alla fine si porta a casa dieci milioni di yen.
Con un plot così schematico e lineare, la fantasia malata del regista si scatena senza soluzione di continuità: fin dall’inizio le punizioni lasciano intravedere un notevole campionario di sadismo, con una delle ragazze legata a una sedia girevole e fatta ruotare per cinque minuti (inevitabile il conato di vomito) e con l’uomo torturato con un asciugacapelli acceso e infilato in bocca. Le prime avvisaglie di una serie di atrocità nelle quali spesso viene meno il controllo, crudeltà assortite che sfociano nello stupro, nella necrofilia e nell’omicidio.
“Red Secret Room” poggia anche su una deriva softcore, in quanto alcune scene sono fortemente incentrate sull’erotismo più becero, evidenziato da raccapriccianti primi piani sul volto libidinoso dei protagonisti ma soprattutto dall’uso allucinante del sonoro, che sottolinea con rumori alquanto inverosimili le sequenze più malsane (provate a immaginare che tipo di suono può emettere una lampadina infilata dentro una figa!). Una deriva trash che comunque fa parte del linguaggio cinematografico di Yamanouchi, un regista che per fortuna evita di prendersi troppo sul serio lasciando ampio spazio all’ironia. L’opera, grazie all’esigua durata di circa settanta minuti, non annoia mai e nonostante il suo taglio prettamente amatoriale, merita la visione, soprattutto se siete appassionati di prodotti underground nipponici.
Il film ha un seguito, realizzato l’anno successivo. Il Giappone estremo passa anche da qui.
(Paolo Chemnitz)