di Yorgos Lanthimos (Grecia, 2009)
Un registratore annuncia le parole del giorno: il mare è una poltrona di cuoio, l’autostrada è un vento molto forte e la carabina è uno splendido uccello bianco. Assistono alla lezione un giovane e le sue due sorelle, costretti a vivere segregati nella loro casa fin dalla nascita. L’unica persona che può uscire da quella villetta è il padre, ma soltanto con la macchina, perché il mondo là fuori è pericoloso e pieno di insidie.
“Dogtooth” (per i greci “Kynodontas”) è un affresco alienante e originale (nonostante una tematica presa in prestito da “El Castillo De La Pureza”, film messicano del 1973) sulla famiglia disfunzionale e su quanto l’educazione e le nozioni che ci vengono imposte durante la crescita possano stravolgere la nostra percezione delle cose. Yorgos Lanthimos spinge alle estreme conseguenze questo concetto, trasportandoci in un ambiente casalingo che sembra un covo di matti (quando a tavola la figlia chiede alla madre il telefono, riceve da lei la saliera). Il comportamento protezionista del padre è ricco di risvolti surreali e bizzarri: egli spiega a tutti che il gatto (un animale che potrebbe intrufolarsi in giardino) è in realtà un pericoloso predatore dotato di artigli affilatissimi, così in una delle scene più assurde del film vediamo la famiglia al completo messa a quattro zampe che si allena ad abbaiare.
La regia è di una freddezza chirurgica impressionante così come i dialoghi e la recitazione, un puzzle perfetto per raccontare una storia del genere, la quale non ha certo bisogno di momenti forti per disturbare lo spettatore (la violenza psicologica è sottile ma devastante), se escludiamo un atto di autolesionismo che ci lascia letteralmente impietriti davanti allo schermo. Ma le conseguenze di una vita reclusa esplodono con naturalezza nella quotidianità, covando continue perversioni che si risolvono indissolubilmente con l’incesto e altre aberrazioni simili (solo una delle due figlie cerca di ribellarsi alle regole ferree di quel carcere fuori dal mondo, ma fuggire non è semplice).
Il regista greco qui è al suo secondo lungometraggio, dopo l’esordio acerbo di “Kynetta” (2005) e i più recenti “Alps” (del 2011, intrigante ma criptico) e “The Lobster” (2015, un’opera pregevole che ha fatto conoscere Lanthimos a un pubblico più ampio). Nella sua filmografia, “Dogtooth” resta ancora oggi quell’apice difficile da emulare, un lavoro basilare e simbolico per tutto il movimento cinematografico ellenico per il quale fu candidato (senza successo) agli Oscar del 2011 come miglior film straniero. “Dogtooth” è da vedere e rivedere, peccato si esaurisca dopo solo novanta minuti, vorresti che non finisse mai. Assolutamente geniale.
(Paolo Chemnitz)