di Martin Koolhoven (Olanda/Francia/Germania, 2016)
“Brimstone” è il sadowestern che ha scandalizzato la critica benpensante al Festival di Venezia del 2016. Bollato sommariamente da qualcuno come un catalogo di atrocità, il film in realtà si colloca in quel nuovo corso di un cinema western fortemente contaminato con altri generi, come ad esempio l’horror o il disturbing drama: a tal proposito possiamo citare come esempi due validi lavori come “Bone Tomahawk” (2015) oppure “Outlaws And Angels” (2016).
L’opera è divisa in quattro capitoli, rivelazione, esodo, genesi e punizione, riferimenti biblici onnipresenti in quanto la religione è la chiave che smuove dal profondo queste due ore e mezza di visione.
Liz (una bravissima Dakota Fanning) è una ragazza in pericolo, così come la sua famiglia. Non può parlare, non ha la lingua. Un reverendo giunto da poco nel villaggio e illuminato dalla parola di Dio trama contro di lei, la minaccia, cerca una vendetta che ha le radici nel passato. Nel secondo segmento, il regista olandese Martin Koolhoven fa un salto indietro e ritroviamo la protagonista costretta a sopravvivere in un bordello di un saloon, umiliata e sottomessa insieme alle sue colleghe prostitute. La storia scorre a ritroso ulteriormente nel frammento successivo per poi chiudersi con il doveroso e risolutivo epilogo.
“Brimstone” è un film perverso e intriso di malvagità fin dalle prime scene (il titolo non a caso significa zolfo), un’opera permeata di sadismo e misoginia, di efferatezze e di costrizioni: gente impiccata e data in pasto ai maiali, frustate, torture, incesto, sangue e violenza, tutto nel nome di una rivalsa completamente spogliata dalla ragione e accecata solo dalle leggi divine e dalla paura dell’inferno. Il ruolo del reverendo è affidato a un Guy Pearce in stato di grazia, ma tutto il comparto attoriale è di livello e riesce a catalizzare la nostra attenzione per buona parte del film (c’è anche Kit Harrington aka Jon Snow di “Game Of Thrones”).
L’ultima mezzora di “Brimstone” tende purtroppo a sfaldarsi, perdendo quel mordente che per almeno due ore era riuscito a centrare il bersaglio: non era facile mantenere una tensione emotiva latente per così tanto, ma Koolhoven è stato comunque capace di saper gestire con intelligenza i tempi narrativi (almeno fino a un certo punto). Al di là di questo calo strutturale, il vero punto di forza del film va ricercato nell’atmosfera opprimente in cui vive la protagonista, un panorama desolante e asfissiante nel quale le uniche possibilità di salvezza sono il coraggio, la solidarietà femminile e la furbizia. Il sadismo insito nel reverendo suscita terrore poiché è mosso da una forza oscura superiore, da quei passi della Bibbia che sembrano volerci annunciare un’apocalisse imminente. “Brimstone” è un western nero, disturbante, che non fa sconti. Imperfetto ma riuscito.
(Paolo Chemnitz)
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