di Uwe Boll (Canada/Germania, 2009)
Uwe Boll ha molti detrattori e ne prendiamo atto. Le sue trasposizioni filmiche di alcuni videogiochi hanno fatto acqua da tutte le parti, ma un’etichetta negativa, una volta appiccicata, si può pure togliere. Negli ultimi dieci anni il regista tedesco ha infatti dimostrato di essere molto pratico e versatile, realizzando dei prodotti più che ispirati: pensiamo a “Darfur” o “Rampage” (entrambi del 2009) ma anche a “Stoic”, un altro film rilasciato durante lo stesso anno e considerato ancora oggi il suo lavoro più estremo e disturbante.
La storia prende spunto da fatti realmente accaduti: solo pochi anni prima, nel carcere di Siegburg, fu inscenato in una cella il suicidio di un giovane detenuto (praticamente costretto a impiccarsi con un lenzuolo), dopo un calvario durato all’incirca dodici ore nel quale il ragazzo subì le più angoscianti torture fisiche e psicologiche. Boll parte da qui, senza una plot vero e proprio ma seguendo da vicino gli eventi e alternando le ore drammatiche del malcapitato con le interviste postume ai tre aguzzini.
Tutto ha inizio con una partita a carte che finisce male: chi perde per primo la mano successiva dovrà ingoiare per scommessa un tubetto intero di dentifricio. Mitch (Shaun Sipos), che fino a quel momento stava vincendo a mani basse, si ritrova costretto dagli altri a subire le conseguenze del gioco, la prima pietra di un massacro psicofisico capace di mettere in moto la legge del branco contro l’esemplare più debole (“mangiare o essere mangiati”).
Durante la visione del film assistiamo a un sadismo sconcertante: il trio perde completamente il controllo della situazione e l’escalation di violenza diventa insostenibile, tra vomito reintrodotto in bocca, una testa infilata nel water e una sodomizzazione a dir poco brutale. Uwe Boll mette in scena tale dramma esclusivamente all’interno di quattro mura, facendoci toccare da vicino un senso di claustrofobia asfissiante dal quale è impossibile sfuggire. Gli attori, pur non eccedendo in bravura, se la cavano discretamente e i loro personaggi non lasciano trasparire un briciolo di umanità neppure nella parte documentaristica del film, quando li vediamo impegnati a raccontare la loro versione dei fatti davanti a una telecamera (anche se Jack, il più infame dei tre, sembra l’unico a non mostrare segni di pentimento).
Se alla lunga l’impatto emotivo di “Stoic” tende a sfilacciarsi un po’, la potenza raccapricciante della sua tragedia resta inalterata per novanta minuti spaccati: la pellicola sale dunque sul podio dei prison movie più devastanti di sempre (in compagnia di quella perla degenerata del russo “The Green Elephant”). Quando gli uomini diventano bestie.
(Paolo Chemnitz)