Depressione ed esistenzialismo in dodici film del nuovo millennio ambientati nell’Europa dell’est

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Quella sporca dozzina. Anzi, quella deprimente dozzina. Dodici film del nuovo millennio selezionati per raccontare il disagio della realtà sovietica o post-sovietica attraverso varie sfumature. Cinema drammatico o cinema d’autore dalle tinte forti e controverse, disturbante quanto basta per farci entrare in una spirale dalle quale è difficile uscirne fuori.
In appendice troviamo anche due opere realizzate da registi occidentali ma ambientate in parte o del tutto nei paesi dell’ex blocco comunista, nuove sfaccettature che si incastrano perfettamente nel piccolo puzzle che abbiamo voluto ricostruire. È doveroso sottolineare il legame indissolubile che intercorre tra i protagonisti di queste pellicole e il territorio circostante in cui si muovono, gabbie urbane di architettura socialista, grigie periferie annerite dai fumi delle fabbriche ma anche spazi ristretti e claustrofobici, piccoli appartamenti che forse sarebbe meglio chiamare tuguri. Senza dimenticare le location rurali, nelle quali lo sguardo infinito che si perde all’orizzonte crea un senso di spaesamento e dove i rumori della natura o i versi degli animali lasciano presagire qualcosa di apocalittico e funesto nell’aria.
La lista non segue un ordine preciso e non vuole rappresentare una classifica di merito (la scelta è stata ardua tra decine e decine di titoli importanti), visto che le opere citate a volte sono diametralmente opposte tra loro, sia per il linguaggio cinematografico adottato che per la loro caratura artistica. Ma sono tutti film che hanno tante cose da raccontare e che a fine visione lasciano addosso un senso di angoscia e di depressione, perché la realtà non è poi così dissimile da quello che stiamo per leggere.

Cargo 200 (Gruz 200) di Aleksej Balabanov (Russia, 2007)

Questo film fu escluso dai Festival di Cannes e Berlino per i contenuti eccessivamente macabri con i quali il regista affrontava il lato più buio della società sovietica nella metà degli anni ottanta. E’ la storia di un viaggio di un professore che si interrompe bruscamente in una decrepita cittadina industriale abitata solo da gente degradata moralmente (polizia inclusa). La sua sosta in una casa di campagna nella quale vive una famiglia di produttori di vodka metterà in luce alcuni segreti oscuri e raccapriccianti, tra segregazioni, violenze sessuali e quel marciume squallido della vita nell’Unione Sovietica ormai in disfacimento. In “Cargo 200” la decadenza della location si trasferisce automaticamente negli individui e viceversa. Una contaminazione (dis)umana che colpisce e alimenta trasversalmente oggetti, persone e questi luoghi in rovina.

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Il Cavallo Di Torino (A Torinói Ló) di Béla Tarr (Ungheria, 2011)

Con “Il Cavallo Di Torino” parliamo di un capolavoro assoluto della cinematografia mondiale, un film realizzato con una manciata di piani sequenza e ambientato in una casetta della puszta ungherese, abitata da un padre, una figlia e il loro cavallo (con riferimento a un episodio della vita di Friedrich Nietzsche). Il disagio esistenziale qui incontra una lettura dell’apocalisse filosoficamente devastante, in una terra incessantemente colpita dal vento che aspetta solo la fine contando i giorni di una tragica routine quotidiana. Il degrado morale dell’umanità è raccontato minuziosamente nel monologo del visitatore, mentre la povertà interna di quella casupola di pietra e l’indefinibile spazio aperto esterno si abbracciano in uno struggente epilogo nero come la pece, senza possibilità di scampo. Siamo in Ungheria, ma Tarr parla a tutto il mondo con il suo testamento concettuale più potente e annichilente.

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The Tribe di Myroslav Slaboshpytskyi (Ucraina, 2014)

In un istituto di sordomuti, un nuovo arrivato deve vedersela con gli altri ragazzi che vivono lì da tempo. Tra bullismo, amore, prostituzione e raptus di violenza, il regista ci catapulta in un mondo chiuso dove il male non ha bisogno di esprimersi a parole, poiché si manifesta nelle azioni e nei gesti dei protagonisti e fa davvero paura. Interpretato completamente nella lingua dei segni, “The Tribe” è un’opera di disagio nel disagio, di giovani già privati a prescindere di un futuro ma ulteriormente ingabbiati e incastonati in questo severo edificio che parla molto più di loro. La scena dell’aborto ‘fai da te’ resta scolpita nella mente, così come il tragico epilogo shock. Un disturbing drama che tramortisce lo spettatore, dopotutto il silenzio spesso fa molto più rumore di qualsiasi altra cosa.

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Un Posto Sulla Terra (Mesto Na Zemle) di Artur Aristakisjan (Russia, 2001)

Il degrado qui si sposta all’interno di una comune, a Mosca. Con un lurido e suggestivo bianco e nero, il regista di origine moldava (già celebre per il disarmante e fagocitante “Palms – Ladoni”) ci sputa in faccia la morte e il supplizio di questa comunità che vive ai margini, guidata da una sorta di santone che organizza la vita di questi disadattati e appestati predicando l’amore libero. Basta uscire giù per strada e vediamo la città pullulare di gente, di turisti, siamo in pieno centro eppure tra quelle mura c’è chi sopravvive divorando topi morti. Un carrellata micidiale di storpi, barboni e freak per un’opera straordinaria che sbaraglia il campo da ogni possibilità di redenzione, la povertà implica la sofferenza più atroce senza via di uscita. Due ore di miseria e devastazione fisica e mentale: “Un Posto Sulla Terra”, pur essendo un luogo casuale, Aristakisjan lo ha localizzato proprio nel cuore della capitale russa. E diventa suo malgrado l’ultimo posto sulla terra, titolo alternativo con il quale è conosciuto il film.

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4 Mesi 3 Settimane 2 Giorni (4 Luni, 3 Saptamâni Şi 2 Zile) di Cristian Mungiu (Romania, 2007)

Il film vincitore a Cannes nel 2007 è un affresco deprimente della Romania sotto il regime di Ceaușescu. La povertà la si può toccare con mano (la fila di ore per le strade per comprare il pane) ma al centro della storia c’è una ragazza che vuole abortire, pratica illegale e all’epoca severamente punita. Il calvario di Gabita e Otilia (le due amiche protagoniste) incontra una serie di personaggi spregevoli ed egoisti, in un contesto urbano grigio e deprimente (il film è stato girato tra Bucarest e Ploiești). La pellicola non solo si dimostra eccelsa dal punto di vista tecnico (magistrali i piani sequenza e le inquadrature frontali), ma ha dalla sua una carica emotiva impressionante che si riversa nei dialoghi meravigliosi (la scena della cena) e in quella visione antropologica di un paese martoriato dal comunismo. Cristian Mungiu, con il suo sguardo cinico e disincantato, riesce a far concretizzare sullo schermo il mal di vivere di una società costretta a trasgredire le rigide regole dettate dalle istituzioni. Nel contesto specifico del nostro articolo, qui è lo stato che diventa fonte primaria di disagio per l’individuo.

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Godless (Bezbog) di Ralitza Petrova (Bulgaria, 2016)

Senza Dio. Appunto. Ci troviamo in una cittadina deprimente della Bulgaria, a Vraca esattamente, nel montuoso nord-ovest: qui una donna di nome Gana lavora in una casa di riposo per anziani ma contemporaneamente gestisce un traffico illecito di documenti falsi, mentre nella sua vita privata condivide l’uso della morfina con un compagno con il quale ha un rapporto apatico, senza più sesso, ridotto solo a lunghi silenzi. Pardo d’Oro a Locarno nel 2016, “Godless” è un dramma cupissimo girato in un luogo abbandonato da Dio, tra strade innevate disseminate di buche, palazzoni socialisti e un cielo perennemente minaccioso. La regia tende a sottolineare il vuoto che circonda i personaggi soffermandosi spesso sul loro sguardo perso nel nulla, su una disarmante routine dove l’elemento religioso sembra esistere solo nelle oscure litanie sprigionate dallo score musicale. La Petrova ci mette sul piatto un’opera dominata dal grigiore, dal dolore e dalla negazione di ogni sentimento (a “io voglio amare” la risposta che segue è “tu non puoi amare”). Un film scoraggiante che entra nello spaccato quotidiano della vita post-comunista in Bulgaria, ancora segnata dal degrado esistenziale e dall’impossibilità di una fuga concreta. Cinema dell’apatia.

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Pál Adrienn di Ágnes Kocsis (Ungheria, 2010)

Piroska è un’infermiera obesa che lavora nel reparto ospedaliero dove sono ricoverati i malati terminali, la sua vita è fatta di solitudine, di rassegnazione e di alienazione: il rapporto con il marito è un fallimento, quello con i colleghi pure (la accusano di applicare l’eutanasia) e la quotidianità è straziante (cambiare i pannolini ai vecchi, controllare dai monitor gli elettrocardiogrammi e avvisare le famiglie in caso di decesso di un paziente). Un quadro assolutamente deprimente, che viene illuminato da una flebile speranza quando la donna si ritrova ad accudire un’anziana di nome Pál Adrienn, da qui il nome del film. La regista ungherese Ágnes Kocsis è impregnata di quel cinema autoriale europeo (che guarda stilisticamente a Ulrich Seidl) che descrive in maniera realistica e nichilista le disgrazie quotidiane dell’essere umano. Piroska è sola mentre il mondo attorno a lei si muove (la scena del plastico con i treni è sensazionale) e il suo tentativo di fuga dalla realtà conoscerà soltanto un amaro epilogo. Molto particolare la colonna sonora, che include pezzi di musica classica e “La Bambola” di Patty Pravo. Un baratro esistenziale straziante.

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Zhit – Living di Vasiliy Sigarev (Russia, 2012)

“Zhit” in russo significa vivere, un titolo che è tutto un programma visto che le tre storie a cui assistiamo durante la visione sono indissolubilmente legate alla morte, alla non accettazione di essa e alla follia generata proprio dalla perdita di un nostro caro. Nella prima, un ragazzino di nome Artem scruta dalla finestra quel mondo che non potrà mai appartenergli, visto che la madre gli impone di non guardare fuori per strada, pena una punizione severa. Nella seconda storia, un giovane sieropositivo intenzionato a sposare la sua ragazza, viene massacrato di botte in un treno da un gruppo di teppisti sotto gli occhi inermi e indifferenti della gente. Infine nell’ultimo racconto, una donna con problemi di alcolismo attende la visita delle due figlie gemelle date in affidamento, ma il viaggio delle bambine terminerà durante un incidente ferroviario. Con un realismo spaventoso, il regista Vasiliy Sigarev ci sputa in faccia l’amara quotidianità di alcune persone costrette a vivere nel disagio esistenziale nonché psicofisico di una Russia dimenticata, un tuffo nella depressione delle periferie o delle zone rurali sommerse da cumuli di neve e abitate da gente senza futuro che affoga nella vodka i propri dispiaceri. Film letale.

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Aurora di Cristi Puiu (Romania, 2010)

Tra i maggiori fautori della new wave rumena, Cristi Puiu con “Aurora” ha avuto il merito di documentare quasi in tempo reale le ore di Viorel, uomo di mezza età interpretato dallo stesso Puiu, un individuo immobile, freddo e senza emozioni distrutto dal recente divorzio con la moglie. Seguiamo il suo girovagare per le strade di una Bucarest cupa e spoglia, lo vediamo comprare proiettili per il suo fucile, nella sua mente infatti l’unica soluzione è drastica e tragica, una vendetta contro le persone che avevano reso possibile la rovina del suo matrimonio (un notaio e i suoceri che avevano condizionato psicologicamente la donna). Il disagio esistenziale qui prende la forma di una lucida discesa nella follia, un programma studiato nei minimi particolari, un calcolo matematico su come disfarsi di questi individui. La telecamera spesso è fissa e si sofferma sul raggelante distacco del protagonista: dopo tre ore rarefatte di visione atterriamo su un finale di una tristezza devastante che ci lascia di stucco. Una lettura profondamente individuale e psicologica del tema portante del nostro articolo.

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Seven Invisible Men (Septyni Nematomi Zmones) di Šarūnas Bartas (Lituania, 2005)

Il regista lituano Šarūnas Bartas è uno dei massimi esponenti del cinema baltico, un autore di non facile comprensione poiché nelle sue pellicole c’è poco spazio per la narrazione e molto per la nostra immaginazione, che deve essere abile a districarsi in ambienti desolati popolati da uomini abbandonati al proprio destino la cui esistenza procede in maniera casuale, come se stessimo parlando di bestie allo stato brado. Esattamente come avviene in “Seven Invisible Men”, un’opera scarna, essenziale e che lavora per sottrazione, dove in partenza troviamo protagonisti quattro personaggi in fuga verso un luogo non definito. Non sappiamo nulla di loro, fino a quando uno di essi raggiunge una casa in mezzo al nulla in una zona interna della Crimea. Il film rilancia le tipiche caratteristiche tecniche del regista: piani sequenza, campo lungo, un sonoro che riveste un ruolo importante e la natura brulla che si perde all’orizzonte con gli animali inquietanti protagonisti. Lo sguardo sulla vita miserabile di queste persone è antropologico ma il cinema di Bartas è soprattutto criptico e richiede una grande attenzione per i particolari. L’uomo è solo una bestia senza dio e senza risposte davanti alla grandezza della natura.

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Lilja 4-Ever di Lukas Moodysson (Svezia, 2002)

Primo di due film non est europei in appendice, ambientato però tra i casermoni della periferia di una non specificata città dell’Estonia (le riprese sono state effettuate tra Tallinn e Paldiski). Lilja è una giovane adolescente che vive in povertà insieme al suo piccolo e fidato amico del cuore, Volodja. Abbandonata dalla madre che presto scappa negli Stati Uniti, la ragazza è costretta a sopravvivere di stenti in un regime di totale privazione, condividendo un umile appartamento con il ragazzino che spesso si ritrova lì con lei poiché sbattuto fuori di casa dal padre alcolizzato. La possibilità di fuga per Lilja coinciderà con l’incontro con Andrej, che le propone di seguirlo in Svezia per rifarsi una vita. Ovviamente le promesse dell’uomo saranno solo una scusa per avviare la giovane sedicenne sulla via della prostituzione, con conseguenze tragiche per tutti. Un film amaro, desolante e per nulla consolatorio, dove la geografia urbana dipinge il destino crudele e segnato già in partenza dei protagonisti.

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Import/Export di Ulrich Seidl (Austria, 2007)

Dall’Austria all’Ucraina il passo è breve e viceversa. Ne sa qualcosa Olga, una giovane infermiera in cerca di un futuro migliore a Vienna e Pauli, una guardia giurata che dalla città austriaca cerca fortuna nel paese ex sovietico. Una buona parte di questo film è ambientata proprio in Ucraina, nella città mineraria di Krasnyj Luč, dominata interamente da industrie e palazzoni di cemento. Qui la donna è costretta ad arrangiarsi in un call center a luci rosse per procacciarsi del denaro, ma la ricerca consapevole di un percorso dignitoso nella vita dei protagonisti si scontra con la desolazione e il degrado dei luoghi e delle persone (una situazione simile toccherà a Pauli una volta arrivato in Ucraina). “Import/Export” è il titolo eloquente di uno dei migliori film di Seidl (se non il migliore), un lavoro che si sviluppa dipanandosi su situazioni depressive e mortifere che scuotono lo spettatore. Uno scambio est ovest che non porta a un miglioramento della propria condizione esistenziale, a suggellare la nostra indagine su un cinema che deprime per i luoghi, per il destino e per il degrado morale, ma che si riflette ovunque nel mondo senza confini né barriere.

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Articolo a cura di Paolo Chemnitz

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