E’ necessario fare un salto nel passato, più precisamente nel 2001, anno in cui su HBO andava in onda “Six Feet Under”, show televisivo nato dalla penna di Alan Ball (“American Beauty”, “True Blood”) che ha vinto numerosissimi premi tra i quali Emmy Awards e Golden Globes ed è stato inserito al diciottesimo posto nella classifica della Writers Guild Of America.
Il curioso titolo si riferisce all’unità di misura con cui si interra una bara negli Stati Uniti, e questo concetto è richiamato anche nell’immagine che compare nell’opening, raffigurante un albero ai cui piedi, sotto terra, giace una lapide che riporta il titolo della serie.
Si tratta di un’opera genuina che non ricorre mai alla spettacolarizzazione degli eventi e in cui i cliffhanger sono quasi del tutto assenti, un racconto attualissimo e crudo che in 63 episodi descrive la perfetta simbiosi tra la vita e la morte, portando a riflettere in maniera profonda sull’esistenza umana e in cui alla fine del percorso lo spettatore si ritroverà cambiato, distrutto, ma soprattutto consapevole.
La famiglia Fisher gestisce un’impresa funebre presso la propria abitazione (in questo modo i protagonisti sono sempre a contatto diretto con situazioni nefaste nella loro vita quotidiana): a capo c’è il padre di famiglia Nathaniel Senior Fisher (Richard Jenkins) che (non è uno spoiler) muore accidentalmente entro i primissimi minuti del pilot. Tale situazione scaturisce una svolta nella vita degli altri componenti del nucleo familiare, i quali si trovano costretti a mandare avanti l’attività ereditata dal defunto padre: si tratta di tre fratelli, Nate Fisher Jr. (Peter Krause), primogenito che torna a casa dopo diversi anni, David Fisher (Michael C. Hall di “Dexter”, per intenderci), omosessuale non dichiarato e dedito al lavoro, l’adolescente e asociale Claire Fisher (Lauren Ambrose), che trova la propria realizzazione nell’arte e infine la madre dei ragazzi dalla mentalità un po’ all’antica, la sensibile Ruth Fisher (Frances Conroy).
Ugualmente importanti sono i comprimari che affiancano le vite dei Fisher: Keith Charles, poliziotto di colore e fidanzato di David, l’ispanico Federico Diaz che lavora come imbalsamatore presso la Fisher & Sons, e la tormentata Brenda Chenowith, la quale intraprende una (malsana) relazione con Nate.
Gli argomenti affrontati durante le cinque stagioni sono molteplici: omosessualità, tradimento, malattie, razzismo, incomunicabilità familiare, religione, solitudine, finto perbenismo e soprattutto la morte in tutte le sue forme. Il concept di base sembrerebbe banale, ma l’originalità sta proprio nel modo in cui un tema tanto delicato (e anche, per alcuni, scomodo) viene esposto grazie alla versatilità di sfumature adoperate quali il grottesco, lo humour nero, il realismo magico, il drama e la comedy passando addirittura per la soap opera. Una delle particolarità di SFU risiede infatti nelle conversazioni immaginarie che spesso alcuni dei protagonisti intraprendono con i defunti durante l’imbalsamazione, bizzarro e geniale escamotage per far trasparire le loro riflessioni, dubbi e paranoie.
La morte è perennemente presente nella vita degli esseri umani e gli autori ce lo vogliono mettere in chiaro sin da subito: l’impostazione verticale standard di quasi tutti gli episodi avviene con un decesso (accidentale, voluto, inflitto, naturale o totalmente buffo e grottesco) di un personaggio random a inizio episodio, con tanto di dissolvenza al bianco e una scritta commemorativa con il nome e data di nascita-morte del defunto!
Ogni lutto con cui la Fisher & Sons ha a che fare è un pretesto per parlare delle ripercussioni più svariate che esso comporta sulla vita dei cari della persona scomparsa: qualcuno è fortemente addolorato, altri non hanno soldi per permettersi di dare degna sepoltura a un parente, chi muore solo e a chi addirittura non importa nulla della perdita e vuole sbrigare la procedura funebre al più presto possibile!
La parte orizzontale del racconto spetta invece all’evolversi delle vicende personali dei personaggi, al percorso (di gioia e dolore) che affronteranno durante la loro vita. La forza di SFU sta anche nei suoi protagonisti, caratteri scritti egregiamente con i quali poter empatizzare e a cui ci si affeziona da subito (cosa molto importante in ambito seriale), umani in tutto e per tutto tanto da diventare negativi e insopportabili durante qualche episodio (nella prima parte della terza stagione, la meno riuscita a causa di alcune ridondanze nelle storyline, tuttavia non compromettenti) con i loro pregi e quindi anche con i loro difetti come qualsiasi persona reale.
La quinta stagione presenta la completa maturità dello show, distanziandosi dall’iter procedurale che caratterizza invece le stagioni precedenti: gli elementi grotteschi esterni vengono ridotti per lasciare molto più spazio ai dolorosi eventi che subiscono i protagonisti, toccando vette di assoluta (a tratti inquietante) drammaticità.
“Six Feet Under” è un’esperienza di vita (e di morte) che lascerà segnati per parecchio tempo, grazie anche a uno dei finali più struggenti e coerenti della storia delle serie tv, che chiude perfettamente il cerchio attraverso un meraviglioso, memorabile ed emozionante montage di circa dieci minuti, accompagnato dalle malinconiche note del brano “Breathe Me” di Sia.
La serie di Alan Ball lascia quindi profondamente il segno nell’animo dello spettatore più sensibile, ironizza in maniera macabra e intelligente su tematiche scomode e sono proprio questi motivi che la rendono preziosa, inimitabile e assolutamente da vedere e rivedere.
(Martina Ippoliti)